La pelle del serpente la teneva, da sempre, sotto al cuscino, sul letto il fucile avvolto in una di pecora.
Quel giorno, fresca mattina di primavera, Gavino salì presto all’ovile.
Il gregge era là, tranquillo, che aspettava.
Quando giunse, il sole ancora non riscaldava la pietra, aprì subito il piccolo cancelletto e fece uscire quel mucchio di lana morbida, che mai una maglia Benetton avrebbe conosciuto.
Le pecore presero, come d’abitudine, la via del pascolo e, dopo averle seguite con lo sguardo per un poco, si rimise in cammino e, tornando indietro, cambiò strada.
Questa non portava al paese arroccato sull’Altopiano del Golfo ma, dopo una ripida, lunga discesa, passando pietraie e tratti di bosco, giungeva a Cala Goloritzè, un angolo di mare molto prossimo al paradiso.
Ci voleva una buona ora di svelto passo per arrivarci ma ne valeva la pena.
Gavino, pastore figlio di pastori, era un isolano di montagna.
Il mare lo aveva quasi sempre visto dall’alto, finché, un giorno, Lucia lo aveva convinto. Scesero insieme, per la prima volta, quella via disegnata tra alberi secolari, sassi coperti di muschio, antichi rifugi per pecore e pastori scavati sotto enormi radici o ricavati in una grotta. Questi facevano anche un po’ paura, lì, forse, qualcuno era stato nascosto, tenuto prigioniero dopo esser stato rapito, in attesa del riscatto. Si sentiva, passando vicino, l’odore della sofferenza, della speranza, della solitudine.
Lucia camminava veloce, lasciandosi a volte scivolare sulla ghiaia, Gavino cercava di starle dietro. Ogni tanto, lei, prendeva un leggero vantaggio, allora si voltava e sorridendo, che belli quei denti bianchissimi, quelle labbra dolcissime, lo incitava a raggiungerla.
Ad un certo punto la strada si fece ancor più ripida, incuneandosi, nascondendosi quasi, sotto agli alberi e, d’improvviso, uscendo da una galleria di ombrose fronde, magicamente sbucò su una cala fantastica.
La spiaggia era rosa, contornata da pietre bianchissime, l’acqua di un colore e trasparenza incredibile.
A quell’incanto rimasero senza fiato.
Poi si spogliarono, si presero per mano e si lasciarono cadere in acqua.
Fu il bagno di mare più bello della sua vita, Gavino non lo scordò mai.
Così, quel giorno, dopo aver liberato le pecore, decise di tornarci ancora una volta.
Camminò velocissimo, corse quasi e quando finalmente arrivò si sentì, come allora, mancare il fiato. Si fermò un attimo a guardare con attenzione, come a volerlo fotografare quel posto. Poi si tolse i vestiti e, nudo, si tuffò nel mare limpido.
Nuotò piano, a lungo, poi, lasciandosi trasportare da piccole onde, tornò sulla spiaggia.
Questa volta da solo, Lucia chissà dov’era.
Se n’era andata tre anni prima, per studiare in un’Università del Continente, qualche giorno dopo quella corsa a Cala Goloritzè, dove Gavino gustò, per la prima volta, il mare e l’amore.
Ora toccava a lui andare, lasciare quei posti, quella terra circondata dal mare.
Doveva andare perché lì non si poteva più stare, lì non c’era futuro, niente lavoro.
L’Isola moriva nonostante fosse uno dei posti più belli del mondo.
Lo aveva sentito dire da qualcuno in un bar di Baunei e ne era rimasto impressionato.
Non voleva credere, non riusciva a credere.
Poi ne sentì un altro e un altro ancora e si convinse.
In fondo anche Lucia se ne era andata in Continente e non era più tornata.
Forse era giusto così, quello il loro destino.
Le pecore non bastavano più per vivere, il formaggio era sempre buonissimo ma nessuno lo voleva.
Questo pensava mentre, ancora bagnato e coperto di sale, risaliva il sentiero.
Ci mise un niente, gli sembrò di scappare.
Quando fu in cima si voltò un’ultima volta per guardare.
I suoi occhi presero il volo.
Quello che vide era troppo bello, unico, meraviglioso, irrinunciabile.
Era il suo mondo, la sua terra, la sua vita.
Decise di sedersi, di restare.
Decise di lottare.
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