Ebbi la sensazione, approdando con quella nave, partita dall’Europa carica di pacifisti motivati, che quella terra mi sarebbe appartenuta. Io, come gli altri, ero partito per non fare la guerra. Mi piaceva quel pensiero. Lo avevo mutuato dalla Ballata dell’eroe di Faber, una canzone che amavo cantare quando strimpellavo la mia chitarra in compagnia degli amici o da solo volando tra i miei sogni. La sera prima di mettermi in viaggio, quel pensiero, lo comunicai ai miei per rassicurarli. Anche agli amici fratelli di sempre lo dissi, aggiungendoci una frase di Don Milani “ A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca.”, per motivarli. A chi chiedeva perché partissi, rispondevo per la voglia, la volontà di conoscere, raccontare la verità. No, non ero pagato.
Andavo a mie spese, a fare del giornalismo puro, senza interesse di sorta. Uno, al bar, mi disse che ero matto, che era pericoloso, forse inutile. Non mi convinse. Gli indifferenti non mi hanno mai convinto. Come a Gramsci, anche a me non sono mai piaciuti. La mattina dopo, intorno alle sette, due compagni d’avventura mi vennero a prendere con la loro macchina sotto casa. Mia madre si alzò per farmi il caffè ma in realtà voleva solo abbracciarmi. Lo fece e ne fui contento. Scesi le scale di corsa portando sulle spalle un piccolo zaino contenente quello che mi serviva: il PC portatile, la macchina fotografica, qualche indumento. I due che mi aspettavano in auto avevano la faccia assonnata ma convinta. Partimmo in direzione della città nel cui porto attendeva la nave che ci avrebbe portato a destinazione. Quando arrivammo sulla banchina stringemmo molte mani di gente entusiasta, colorata, sorridente. Tutti insieme salimmo e la nave salpò. La navigazione filò tranquilla su di un mare magnifico. Nemmeno mi accorsi del tempo che ci volle, non saprei quantificarlo in ore. Volò leggero, spinto dal vento della giustizia, della voglia di esserci, degli ideali.
Poi vedemmo la meta avvicinarsi. Da lontano pareva un posto come un altro, la terra vista dal mare è quasi tutta uguale, rassicurante. Entrammo in porto cantando, ballando, inneggiando alla libertà. Ci aspettava la polizia ma rimase lì a guardarci senza intervenire, ci lasciò fare. Esponemmo striscioni di protesta, urlammo i nostri slogan. La gente semplice che affollava il molo ci applaudì. Parecchi di noi scesero per affratellarsi con quel popolo martoriato da sempre, io fui dei loro. Appena misi piede su quel mondo capii che avevo fatto la scelta giusta, la cosa più bella che potevo fare. Decisi di fermarmi quando gli altri tornarono indietro. Per conoscere, per aiutare, per vivere. Divenni amico di molti, nemico di nessuno. Parlai molto cercando di capire, scrissi parecchio cercando di spiegare, fotografai tanto per documentare. Ogni sera, prima di dormire, ripetevo il mio pensiero e lo trovavo stupendo.
Ora sono qui, col volto tumefatto, le mani legate dietro alla schiena, bendato ed ho paura.
Prigioniero di gente che dice d’appartenere a quella stessa gente che volevo aiutare. Non ci credo, non riesco a crederci. Non possono essere le stesse persone, forse somiglianti ma di certo non appartenenti a quel popolo di cui ho sostenuto gli ideali e da cui sono stato accolto in fratellanza.
No, non sono loro, sicuro.
Tra poco mi filmeranno, me l’hanno detto. Poi il filmato farà il giro delle televisioni di tutto il mondo con una richiesta di scambio, la mia vita per la libertà di qualcun altro. Poi mi rilasceranno, così hanno promesso. Spero solo che a casa, quando mi vedranno sullo schermo, siano tutti vicini per sentire meno spavento.
Non devono temere per la mia vita, non devono avere paura.
Chi mi ha preso e mi tiene in ostaggio sa perché sono qui, conosce il mio pensiero.
Io sono partito per non fare la guerra.
Dio, come vorrei avere tra le mani la mia chitarra e suonare, ora, La ballata dell’eroe.
Quella canzone, così profonda, malinconica.
Chissà se qualcuno di loro avrà mai ascoltato Fabrizio De Andrè.
Un autentico, perché disarmato e profeta di amore, eroe di questi barbari tempi!
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