Il gallo, all’alba, dopo avere inorridito col suo canto stonato l’intera vallata, era alle prime armi e ancora lontano dal dominare perfettamente pentagramma e corde vocali, tornò al pollaio per augurare una Buona Pasqua alle sue amate galline. Queste, svegliate di soprassalto dal lancinante lamento del loro maschione, mostrarono un certo disappunto. Una delle più vecchie disse al cantore pennuto di abbassare la cresta e togliersi dalle uova. Altre decisero di scioperare, non tanto per l’orario di lavoro comunque pesante, neppure per la paga, i vermi dell’aia non erano più quelli di una volta, ma, in particolare, contro quella stramaledetta abitudine di cantare a squarciagola, ogni mattina e così presto. La cosa peggiore fu il ritrovamento di due Padovane suicidate strappandosi le penne e bevendo un intruglio di escrementi di maiale e cicuta. Accanto all’ultimo uovo lasciarono un biglietto d’addio pieno di insulti, maledizioni ed anatemi rivolti proprio a lui.
Il gallo, consapevole della sua disgraziata natura ma ligio al dovere, non poteva fare a meno di cantare. Era scritto nelle regole, nella tradizione contadina. Da sempre era così. Il gallo canta all’alba, nero su bianco come da contratto con l’allevatore. Se si fosse deciso a smettere sicuramente gli avrebbero tagliato i barbigli e quant’altro. D’altronde gli incassi del suo show mattutino andavano male. Al botteghino non c’era mai la fila, anzi risultava quasi sempre deserto. Preso dalla disperazione intonò una nenia fuori orario cercando di ammansire la rivolta. Poi passò ad una ninna nanna che colse nel segno. Sul pollaio cadde il silenzio, l’harem dormiva tranquillo. Lui si rinfrancò. Si disse che allora non era poi così stonato se era riuscito, con quel melodioso canto, ad addormentarle tutte quelle stupide galline. Vedendo che tutto dormiva decise di farsi una pennichella. Cadde tra le braccia di Morfeo rapidamente, profondamente. Sognò di essere un novello Pavarotti, solo un poco meno grasso. Nel sogno raccoglieva grandi applausi ed ovazioni infinite.
Poi, quando si risvegliò tutto contento, il pollaio non c’era più. Lui era rinchiuso, completamente spennato ed oliato, sdraiato in una teglia, in un luogo stretto, buio e piuttosto caldo. Qualcuno accese una luce e lui riuscì a vedere, al di là del vetro, l'odiato tacchino che rideva. Poi la luce si spense e lui si sentì soffocare, leggermente bruciare, direi quasi abbrustolire. Quando lo portarono fuori, adagiato su un tappeto di patate annerite, e lo misero nel centro di una grande tavola, le galline del suo pollaio erano tutte appollaiate intorno, munite di coltello e forchetta e con un tovagliolo appeso al collo. Ci fu un grande, ultimo applauso, poi la più vecchia di tutte alzò un affilata mannaia e la piantò, con forza inaudita, in una delle sue cosce strappandogliela di netto. La pennuta tavolata emise all’unisono un urlo di soddisfazione e fece per dare inizio alla grande beccata.
Il fattore, che seguiva in disparte la cerimonia, diede l’alt ed ordinò di augurare al gallo, prima di cominciare, una Buona Pasqua.
La gallina vecchia disse “ E’ giusto.” e, avvicinandosi alla testa del gallo, in nome di tutte, porgendogli l’uovo, con voce suadente, gli fece gli auguri.
E Buon XXV Aprile!
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