mercoledì 6 luglio 2011

La spina.


-        - E’ più facile staccarla, che tenerla attaccata, la spina. -
Questo pensava, stringendo forte le ginocchia con le mani, guardando il soffitto, seduto, sulla piccola poltrona rivestita di velluto blu, accanto al letto.
Quel letto, ormai, diventato la sua isola, il porto dove ogni mattina entrava per dare una furtiva, ansiosa occhiata e la sera attraccava per trascorrervi una notte priva di stelle, da quando suo padre, sette anni prima, si era improvvisamente ammalato di S.L.A.
Da sette anni.
Ormeggio per buoni e cattivi pensieri che si alternavano velocemente, tarlandogli la mente, consumandogli gli occhi. Era la sua speranza, la rabbia, la solitudine, l’impotenza, l’amore.
Il suo mondo. Immobile.
Da sette anni.
Sua madre faceva il turno di giorno occupandosi di tutto quello di cui aveva bisogno suo padre e suo padre aveva bisogno di tutto. Poi, la sera, arrivava lui e le dava il cambio. Lei, uscendo senza parlare, lo guardava triste ma orgogliosa. Era contenta di avere un figlio così, uno che non si era mai arreso all’infinito tempo trascorso accanto a quel letto, così come non lo aveva fatto lei. In silenzio, ogni sera, si passavano il testimone della sofferenza scambiandosi una carezza, un timido sorriso.
Lei usciva piano dalla stanza, chiudeva con delicatezza la porta, scivolava via.
Sul tavolino rotondo, a tre piedi e col piano di cristallo, qualcosa da mangiare, una caraffa piena d’acqua fresca, a volte una bottiglia di birra, della frutta e una rosa. Appena lei era svanita, lui si avvicinava al letto e guardava quel volto. A volte neppure lo riconosceva. Altre faceva finta di non riconoscerlo.
Il volto dormiva quasi sempre. Ogni tanto sereno, spesso sofferente.
- Dorme. - pensava – Chissà come fa? -
Se lo domandava spesso, chiedendosi, immediatamente dopo, se lui sarebbe riuscito, nella medesima situazione, a fare lo stesso. Dormire. O se solo sarebbe stato capace di resistere, in quella condizione, così a lungo. Oppure se, nel caso gli fosse capitato qualcosa del genere, un giorno, qualcuno, chissà chi, gli avrebbe osservato il viso.
Sette anni. Volati. Pare impossibile come il tempo corra veloce anche quando sembra fermo.
Miliardi di minuti consumati accanto a quel letto, cercando gli occhi di quel volto. Immaginando il mondo, fuori, ignaro di quel letto, intento a correre dietro al nulla, ad affannarsi per ogni piccola stupida cosa. A farsi del male.
Lì, vicino a quel letto, non c’era spazio a sufficienza per le cazzate, anche se qualcuna, ogni tanto, avrebbe fatto sicuramente compagnia.
Era solo. Lui e il volto. Lui e il letto.
Lo Stato non si era mai visto, non si era mai fatto sentire. Nemmeno una cartolina di auguri.
Lui, ad un certo punto, in preda alla disperazione, aveva annunciato, in un programma televisivo, la volontà di vendere un rene per poter continuare ad occuparsi del padre.
La cosa aveva fatto scalpore e, sull’onda mediatica dell’emozione, qualcuno, appartenente alle istituzioni, si era fatto vivo promettendogli aiuto. La promessa fu mantenuta ed oggi, lui e sua madre, possono, per qualche ora del giorno, staccarsi da quel letto.
Ma poi la sera ritorna e subito dopo la notte.
Con essa arrivano i buoni e cattivi pensieri.
Giusto così, non si può dimenticare, perdonare l’indifferenza, trascurare le altre persone che, come lui, passano notti senza stelle.
Per questo continua a lottare, non gli basta quello che ha avuto, troppo poco, troppo facile.
Lo fa anche per tutti gli altri che devono avere.
Lui, per farsi ascoltare, per non essere costretto a staccare la spina, ha dovuto urlare di voler vendersi un rene.
      Una provocazione o forse no.
      Lo hanno preso sul serio.
      Hanno fatto bene.

2 commenti:

  1. commovente da morire signor Minguzzi, mi sono venute le lacrime agli occhi.......vorrei che le cose che scrivi fossero lette, almeno una volta, da chi ha davvero il potere di cambiare le cose... utopia?!

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