giovedì 28 luglio 2011

Fritto di paranza.

Essere stanchi del mondo non è difficile se la frittura di paranza ti va di traverso.
Il cielo sopra Berlino lo aveva visto almeno quattro volte ed, ogni volta, era coperto dalle nuvole.
Il muro, poi, lo costruì suo nonno, da solo. Era un abilissimo manovale calabrese con le mani quadre, dotato di grande fantasia e di nessuna capacità nel reggere l'alcool durante le partite a passatella. Quando, dopo aver prenotato un posto di classe su di un carro bestiame, partì per la Germania, giurò, su quanto aveva di più caro, pur non ricordando ne chi ne cosa, che mai e poi mai avrebbe bevuto birra. " Non voglio mangiare nemmeno un wurstel, menchemeno dei crauti!" urlò mentre il capostazione fischiava ed il treno partiva. Si addormentò tra un maiale ed una gallina e, la mattina, quando si svegliò, la dolce pennuta gli aveva cagato sulla testa. Assonnato e barcollante si diresse verso il bagno ed aprì la porta senza bussare. Seduto sul water il maiale leggeva le pagine finanziarie di un quotidiano cecoslovacco e quando si accorse di lui gli disse "Salsiccia!".
Chiedendo scusa pisciandosi addosso, dopo aver richiuso la porta, decise di fare un salto alla carrozza ristorante per una petit dejeuner.
Entrando disse "Bonjour!".
Il barista, un uomo biondo, alto, con gli occhi azzurri, certamente ariano, con uno strano accento pugliese rispose "Scheise!" e gli lanciò del fieno. Fu subito allergia. Gli starnuti risuonarono forte lungo tutto il convoglio, così forte da giungere alle orecchie del macchinista che, infastidito, tirò il freno, staccò il locomotore, scese ed andò a puttane. Non tornò più.
Interrogate, le generose signore, giurarono di non averlo mai visto. Una in particolare, dotata di folti baffi, muscoli vigorosi, voce cavernosa, con un cappello delle Ferrovie sulla testa e un disco di Guccini sotto ad una ascella, dichiarò che da quelle parti mai era passato un macchinista ferroviere. Le indagini si fermarono lì ed il caso venne chiuso.
Il treno ripartì con il pilota automatico, sbagliò il primo scambio di coppia e deragliò in un grande prato verde dove crescono speranze che si chiamano ragazzi.
Il manovale si salvò ed, a piedi, giunse in PostdamerPlatz. Qui conobbe una certa Milva, una pantera dai capelli rossi. Un colpo di fulmine. Convolarono a nozze poco dopo e lei gli chiese di costruirle una casa.
Lui si mise subito all'opera e in un tempo velocissimo eresse il primo muro. Quando ebbe finito si voltò per cercare gli occhi assatanati dell'amata ma questa non c'era più. Fuggita, tra un colpo di cazzuola e l'altro, con un bagnino di Cesenatico che si trovava da quelle parti per una vacanza. Il manovale, deluso e sconfitto, fece ritorno e si ritirò, per sempre, in Aspromonte dove aprì un albergo ad ore.
Oggi il muro non esiste più, l'albergo ad ore, invece, gode di ottima salute.

lunedì 25 luglio 2011

La cadrega.

Oggetti polverosi e vissuti lo guardavano stizziti.
Lui con una mano reggeva un ombrello, con l'altra sfiorava il Paradiso. La pioggia cadeva incessante, fitta, trafiggendogli gli occhi. Rideva osservando la polvere dissolversi. Il mondo gli appariva improvvisamente diverso, insolito, uguale. Non era più il tempo delle mele, lo capiva dai vermi che le divoravano. Uno fece capolino bucando la buccia gialla, leggermente avvizzita, di una di queste e gli chiese: " Scusa se disturbo. Non avresti qualche altro frutto? Che so, una nespola, una susina, una fragola o, sarebbe fantastico, delle giuggiole?"
Lui disse: " Aspetta un momento. Guardo nelle tasche. Dovrebbe esserci una vecchia banana. Ricordo di avercela messa una cinquantina di anni fa. Era un po' acerba e volevo farla maturare. Ora credo sia bella pronta, giusta da mangiare."
Il verme rimase lì ad aspettare ma la banana non arrivò mai.
Decise, allora, di partire per lidi esotici, spiagge lontane. Comprò un costume da Carnevale e volò a Rio.
Qui giunto, si accodò subito a sculettanti ballerine di Samba ma non possedeva il dono del ritmo.
Lo misero fuori squadra ma lui, pur ritenendosi offeso, non si perse d'animo. Volle dimostrare a tutti che sapeva suonare la Bossanova come nessun altro verme sotto terra.
Comprò una chitarra, un tanga, una cassa di birra e si trasferì in Svizzera dove divenne esperto nel contare i buchi dell'Emmenthal. Ebbe la fama ma non il formaggio, era un verme non un topo. Per questo motivo fu squalificato a vita. Accusato di doping, messo alla berlina, fuggì a bordo di una utilitaria. Lo fermarono alla frontiera sparandogli con un lanciarazzi.
L'auto saltò per aria ed atterrò a Varese. Uscendo strisciando dai rottami fumanti finì sotto ai piedi scalzi di un leghista mussulmano che gli mostrò una copia del Corano scritta in bergamasco.
La lesse con avidità pur non capendone nulla.
Poi, qualcuno, gli diede una cadrega e lui, finalmente soddisfatto, si ritirò per sempre.

martedì 19 luglio 2011

Niente Coca-Cola.

Nella sua vita aveva fatto cose straordinarie come riuscire a stappare una bottiglia di birra con i denti o camminare bendato in equilibrio su di una formica. Gli piaceva giocare sapendo di perdere sempre. Andava pazzo per le ombre cinesi. Passava ore davanti ad una lampada muovendo le mani, le dita, formando figure fantastiche su pareti bianche. L'aquila, il coniglio, il cane, l'indiano che muove l'occhio ed apre la bocca. 
Con quest'ultima, la sua preferita, poteva trascorrere una notte intera inventando storie incredibili.
Poi, in una notte di luna piena e moglie ubriaca, decise di smettere e diventare geometra.
Comprò un righello, una squadra, un compasso, della carta millimetrata, un temperino e fece la punta ad una matita. Appena ebbe finito, la mina affilata prese a correre veloce e, dribblando tutti, attraversò l'intero rettangolo di gioco e mise la palla pentagonale in fondo alla rete.
L'arbitro, un astrofisico cieco famoso per aver scoperto la Stella di Negroni, fischiò ed indicò il cerchio di centrocampo.
Il portiere di gomma, battuto, la prese male e cancellò la linea di fondo e l'area di rigore. Poi fece sparire l'erba, le panchine, le riserve, i massaggiatori e, con la palla, si diresse verso gli spogliatoi urlando " E' mia! E' mia!! Non gioco più, me ne vado." Da quel momento, per  tutti, divenne la Mina e lui, offeso, si fece esplodere sotto alla doccia trasformando lo stadio in un cratere enorme.
I venditori di bibite e panini persero il lavoro ma conservarono la fiducia, tre aranciate e alcune fette di salame. Con questo piccolo capitale aprirono, qualche tempo dopo, una fabbrica di cannoni e, bombardando chiunque non saldasse le fatture, divennero ricchissimi.
Il mondo, ormai, era ai loro piedi, sempre che, questi, avessero trovato qualcosa su cui appoggiarsi. Guardando con attenzione si accorsero di una zolla superstite e, scalzi, vi saltarono sopra.
" A piedi nudi nel parco!" disse uno destro " Avanti Piedi Neri!" incitò uno sinistro.
Quando pareva che fossero riusciti a sistemarsi, la zolla andò in mille pezzi disperdendosi nell'infinito brodo primordiale.
Alcuni alieni, intenti ad accendere un barbecue, videro la scena e si misero a ridere. 
" Telefono casa." disse il comandante. Purtroppo le linee erano intasate ed il cellulare non aveva campo.
" Va' beh. Telefono casa dopo." concluse masticando una braciola carbonizzata.
" Porco Saturno! Spark, cuoco di marte! Ma quando riuscirai a cuocere la carne al punto giusto? Lascia perdere. Vi porto tutti da McDonald's ma niente Coca-Cola!".

mercoledì 6 luglio 2011

La spina.


-        - E’ più facile staccarla, che tenerla attaccata, la spina. -
Questo pensava, stringendo forte le ginocchia con le mani, guardando il soffitto, seduto, sulla piccola poltrona rivestita di velluto blu, accanto al letto.
Quel letto, ormai, diventato la sua isola, il porto dove ogni mattina entrava per dare una furtiva, ansiosa occhiata e la sera attraccava per trascorrervi una notte priva di stelle, da quando suo padre, sette anni prima, si era improvvisamente ammalato di S.L.A.
Da sette anni.
Ormeggio per buoni e cattivi pensieri che si alternavano velocemente, tarlandogli la mente, consumandogli gli occhi. Era la sua speranza, la rabbia, la solitudine, l’impotenza, l’amore.
Il suo mondo. Immobile.
Da sette anni.
Sua madre faceva il turno di giorno occupandosi di tutto quello di cui aveva bisogno suo padre e suo padre aveva bisogno di tutto. Poi, la sera, arrivava lui e le dava il cambio. Lei, uscendo senza parlare, lo guardava triste ma orgogliosa. Era contenta di avere un figlio così, uno che non si era mai arreso all’infinito tempo trascorso accanto a quel letto, così come non lo aveva fatto lei. In silenzio, ogni sera, si passavano il testimone della sofferenza scambiandosi una carezza, un timido sorriso.
Lei usciva piano dalla stanza, chiudeva con delicatezza la porta, scivolava via.
Sul tavolino rotondo, a tre piedi e col piano di cristallo, qualcosa da mangiare, una caraffa piena d’acqua fresca, a volte una bottiglia di birra, della frutta e una rosa. Appena lei era svanita, lui si avvicinava al letto e guardava quel volto. A volte neppure lo riconosceva. Altre faceva finta di non riconoscerlo.
Il volto dormiva quasi sempre. Ogni tanto sereno, spesso sofferente.
- Dorme. - pensava – Chissà come fa? -
Se lo domandava spesso, chiedendosi, immediatamente dopo, se lui sarebbe riuscito, nella medesima situazione, a fare lo stesso. Dormire. O se solo sarebbe stato capace di resistere, in quella condizione, così a lungo. Oppure se, nel caso gli fosse capitato qualcosa del genere, un giorno, qualcuno, chissà chi, gli avrebbe osservato il viso.
Sette anni. Volati. Pare impossibile come il tempo corra veloce anche quando sembra fermo.
Miliardi di minuti consumati accanto a quel letto, cercando gli occhi di quel volto. Immaginando il mondo, fuori, ignaro di quel letto, intento a correre dietro al nulla, ad affannarsi per ogni piccola stupida cosa. A farsi del male.
Lì, vicino a quel letto, non c’era spazio a sufficienza per le cazzate, anche se qualcuna, ogni tanto, avrebbe fatto sicuramente compagnia.
Era solo. Lui e il volto. Lui e il letto.
Lo Stato non si era mai visto, non si era mai fatto sentire. Nemmeno una cartolina di auguri.
Lui, ad un certo punto, in preda alla disperazione, aveva annunciato, in un programma televisivo, la volontà di vendere un rene per poter continuare ad occuparsi del padre.
La cosa aveva fatto scalpore e, sull’onda mediatica dell’emozione, qualcuno, appartenente alle istituzioni, si era fatto vivo promettendogli aiuto. La promessa fu mantenuta ed oggi, lui e sua madre, possono, per qualche ora del giorno, staccarsi da quel letto.
Ma poi la sera ritorna e subito dopo la notte.
Con essa arrivano i buoni e cattivi pensieri.
Giusto così, non si può dimenticare, perdonare l’indifferenza, trascurare le altre persone che, come lui, passano notti senza stelle.
Per questo continua a lottare, non gli basta quello che ha avuto, troppo poco, troppo facile.
Lo fa anche per tutti gli altri che devono avere.
Lui, per farsi ascoltare, per non essere costretto a staccare la spina, ha dovuto urlare di voler vendersi un rene.
      Una provocazione o forse no.
      Lo hanno preso sul serio.
      Hanno fatto bene.

lunedì 4 luglio 2011

Nella città degli idioti.

Nella città degli idioti quando incontri qualcuno mai lo conosci.
Le persone non sono persone ma ectoplasmi catarifrangenti.
Nella città degli idioti, la gente riesce a riflettere senza aver bisogno di pensare.
Tutto gira intorno a dei tavoli verdi da gioco, la mafia tiene il banco e vince sempre.
Le amministrazioni si avvicendano frenetiche, passandosi la fiche del comando da mano sporca ad altra lurida. Qui nessuno ha la buona abitudine di usare, costantemente e con profitto, del sapone per lavarle. Vanno parecchio i deodoranti capaci di nascondere la puzza.
I commercianti, per nulla equi e solidali, litigano per una sedia, o uno sgabello in più, nella piazza simbolo del divertimento, il posto peggiore dove spendere il proprio tempo. Ladri da sempre, accolgono il turista, il pellegrino di passaggio, come fosse il classico pollo da spennare, senza un sorriso. Il saluto più in voga è il calcio nel culo, pratica perfettamente applicata. I fondamentali sono ben noti a tutti.
Nella città degli idioti persino i fiori non sono gentili. Nelle aiuole crescono agguerriti ed incazzati. Piante carnivore assassine. I giardinieri le temono a tal punto da non riuscire ad avvicinarle.
La città degli idioti è il luogo rappresentativo del peggio del Paese. Finta, scostante, ignorante. Disporrebbe di un bel centro storico ma nessuno, qui, da importanza alla Storia.
Utilizzato come una cloaca a cielo aperto, rifugio per sbandati, luogo di speculazioni assortite, fa generosa mostra di se sulla collina. Dall’alto o dal mare pare quasi bello. E’ bello, troppo per gente abituata a vivere di sole marchette. La piccola riottosa stupida borghesia, ammassata nei trecento metri della via dello struscio serale, non lo ama. Preferisce il Rolex. Questo si che sa cosa sia il tempo, al presente, al passato.
I pochi che certamente lo vivono, e lo pensano migliore, rappresentano una minoranza, quasi dei tossici della speranza.
Chi vive a dieci metri di distanza dalle antiche mura, ritenendosi appartenente ad altra galassia, lo ignora, ne ha paura.
“ Ci sono i negri, lassù!”. Questo si dice a chi chiede informazioni.
“ Meglio non andare, lassù.”. Si consiglia.
Lassù il male, quaggiù il bene. Confondono ed invertono l’ordine tra il Paradiso e l’Inferno. Naturalmente nulla sanno del Limbo dove, da sempre, si trovano.
La città degli idioti vive così, sospesa sulla sua stupidità. Inutilmente, stancamente protesa verso l’effimero. Banalmente affacciata sul mare.
Nuotando nello stesso mare, in un tempo ormai lontano, Italo Calvino ha trascorso la sua adolescenza.
Poi, appena ha potuto, se ne è andato.
Lui, da altri posti, ha immaginato e scritto “ Le città invisibili “.
Tutta un’altra storia.