martedì 30 novembre 2010

Edoarda.

  La piccola grande donna venuta da una terra grassa cucinava cosce di pollo e risate. Tra i tavoli all'aperto, che avevano già conosciuto le fette di pane e salame di Ottavio, volteggiava. Colorata e leggera. Le notti d'estate, rischiarate dal lume delle candele, parevano più fresche tra quelle macerie indimenticate. Stellate infinite tuffate nei bicchieri di vino di sognatori che, già ebbri di canzoni strappate al silenzio, sostenevano un mondo, il mondo di Dudù. Lei che un giorno aveva scambiato una pensione nel centro per una pergola sotto la luna rideva come solo sanno ridere le persone che amano la vita. Quel giorno fece un viaggio breve che la portò lontano, sino ad una spiaggia dorata dove i suoi capelli rossi spiccavano ancor di più. Il mondo di Dudù, estetica e sogno. Frittelle e abbracci. Avventura e samba. Voglio ricordarti così, immortalarti mentre sorridi a chi ti porta via una piccola cosa senza toglierti niente. Dudù e il tuo tempo. Alla stazione c'era un bel sole e tanti altri mondi possibili. Dudù hai fatto il biglietto e scalza sei andata, restando ferma mentre il mondo va.

lunedì 29 novembre 2010

Stella cadente.

Quella mattina si sentiva piuttosto zen e con un'ascia in mano decise di abbattere una palma nel giardino. All'alba aveva preso un caffè, in un bar del porto, che era una bomba. Tornando verso casa si domandava se il barista, in realtà, non fosse un kamikaze. La sera precedente stava lì, sul terrazzo, al buio, cercando di vedere una stella cadente, inutilmente. Poi andò un attimo in bagno e si vide allo specchio. " OK " si disse " mi sono lasciato andare. Troppi yogourt, tisane, letture importanti, poca televisione, bicicletta, niente fumo, acqua a fiumi. Da oggi si torna ad una vita più sana: Gazzetta dello Sport e fiasco di vino." Prese il telecomando e lo puntò verso lo schermo al plasma 64 pollici che troneggiava nel tinello, che, stranamente, non era marron come quello della canzone di Paolo Conte, e lo accese su Rai Storia. Davano una replica della diretta di un allunaggio di molti anni prima. Un uomo, vestito da un prozio di Dolce e Gabbana, passeggiava sulla luna cercando di ricordare se aveva chiuso il gas prima di uscire di casa. L'astronauta travolto dal dubbio tentava di comunicare col campo base ma le sue parole giungevano spezzettate e nessuno dei presenti a Cape Canavaral riusciva a capirlo. Allora chiamarono sua nonna, alla quale bastò un'occhiata per capire che suo nipote, nonostante stesse sulla luna, era sempre il solito idiota. Salutandolo senza nessuna commozione gli confermò che si, aveva dimenticato il rubinetto del gas aperto, la casa era saltata per aria, tutto era andato distrutto escluso gli amati nanetti di gesso che erano miracolosamente salvi. Dopo avergli raccomandato di indossare sempre la maglia della salute, la vecchia se ne andò brontolando e sputando. Il cronista che seguiva la vicenda non seppe che dire, fece un segnale alla regia e la pubblicità partì. Lui fece click e la TV si spense. " Quello che nella vita realmente serve è un tetto solido sopra le testa e un pavimento di burro sotto ai piedi." Così pensando tornò in bagno e si sedette sulla tazza. Poco dopo si accorse di aver finito la carta igienica.

mercoledì 24 novembre 2010

La telefonata.

Ascolto la telefonata mentre raccolgo la pioggia con il colapasta. Resto immobile. Rivedo il terribile ghigno, l'inossidabile sorriso dei suoi sessantaquattro denti sovrapposti. Chi parla è il re degli squali in caduta libera, si dibatte stretto tra mafie e derby. Ormai anche i barboni lo guardano, maledicendolo lo aspettano preparandogli i cartoni. Lui nel parco da sempre ci abita ma gli alberi più gli appartengono. I borghesi seduti in seconda fila si baciano per non vedere. Le ricche vedove lo giudicano un ladro ma ancora fine gentleman. Attacca lanciando sassi, farnetica, la vita sua è essere simbolo di tenebre abbellite da perline e lustrini. Nelle vene ha sangue destinato a seccare. Si affiderà a medici compiacenti impotenti davanti all'immininente disfacimento. Un servo comporrà per lui l'ultimo canto, mentendo. Ci vorrebbe un poeta del male per spedire una cartolina ben scritta di saluti. Lui ha Bondi e Pato. Il primo non sa scrivere, il secondo sa palleggiare ma non con il destino. Scivolando nel fango gelido manderà baci lanciando gli ultimi diamanti alle Ruby di tutto il mondo che vedrà restringersi contro le stelle. Infine, finalmente, sparirà inghiottito da un buco nero grande come uno spot. Dio non lo guarderà stanco com'è delle sue stupide barzellette. Lontano, una melodia francese farà da tappeto musicale al suo addio.
Ascolto la telefonata mentre raccolgo la pioggia con il colapasta.

martedì 23 novembre 2010

Senza stivali.

  Il gatto rientrò a casa senza gli stivali. La notte era volata via discutendo con Robin Hood sulla utilità di togliere ai ricchi per dare ai poveri. Quello che lo disturbava era il fatto che, una volta rapinati, i primi sarebbero diventati poveri ed i secondi ricchi. Si sarebbe dovuto quindi ritogliere ai secondi per restituire ai primi e così via all'infinito. Inoltre, in tutto questo giro di giostra, alla fine, tutti sarebbero caduti a terra senza capirci più niente. Poi si era accorto che, mentre esponeva animatamente le sue idee, Robin Hood non lo ascoltava affatto preso com'era dagli occhi di Biancaneve. Decise allora di lasciar perdere quell'idiota in calzamaglia verde e chiamò a se i sette nani per parlare con loro in merito alle qualità fisiche e morali della pallida ragazza. Questi si presentarono in sei, Pisolo non ne voleva sapere di svegliarsi, e non se ne fece nulla. Leggermente disturbato da tanta anarchia, che mai avrebbe pensato potesse far parte del mondo delle favole, si sedette ad un tavolo a forma di fungo con il Cappellaio Matto ma questi non faceva altro che caricare un orologio a forma di coniglio e non era minimamente interessato alla politica. Sconsolato si alzò e si diresse verso casa. Sulla via incontrò Don Chisciotte che, stanco di lottare contro mulini a vento e dopo aver licenziato Sancho Panza senza avergli pagato nemmeno i contributi ed aver macellato Ronzinante, gli comunicava che lasciava questo mondo per trasferirsi alle Maldive con Cenerentola dove intendevano aprire un negozio di scarpe o, in alternativa, un porno-shop. Restò basito, senza più parole. Salutò comunque cordialmente il Cavaliere che si era venduto il cavallo per favorire i capricci di una serva ed, accorgendosi che il Don era sfornito di scarpe, gli regalò i suoi stivali per toglierselo rapidamente dai coglioni.
Così rientrò a casa a zampe nude. Appena dentro tirò fuori dalla tasca il cellulare e chiamò l'Agenzia di Viaggi di Alice  e le confermò che avrebbe portato solo un piccolo bagaglio a mano nel Paese delle Meraviglie.

sabato 20 novembre 2010

Punti fedeltà.

Ricordi il tempo in cui vivevi come fosse sempre estate? Bottiglie di vini pregiati rubate nei ristoranti, scritte rumorose lasciate con rossetto rosso fuoco sugli specchi, notti randagie, libera da ogni guinzaglio, in cerca di anatomie esaltanti. I tacchi a spillo sempre conficcati negli occhi del mondo. Non chiedevi mai l'ora e non possedevi orologi. La musica era il tuo tempo, il tuo silenzio, la tua pace. Il sesso un sasso da scagliare con forza nel cuore di qualcuno. Tanta bellezza, nessuna paura. Tendevi all'infinito disegnando un mondo di architetture ricche.
Ricordi? Così per sempre vivere, dicevi. Portavi sulla bocca parole leggere ed in centro la tua pelle. Le tue scollature ferivano mortalmente, i tuoi denti scintillavano furore. Ora spingi un carrello sempre troppo pieno nei supermercati in cerca di offerte promozionali, apparecchi la tavola allineando perfettamente le posate, voti a sinistra con la mano destra. La sera entri nel letto in modo ordinato e al mattino ti svegli senza aver stropicciato le lenzuola. Che fine hai fatto Mademoiselle baciatemi e scordatemi? Oggi è domenica e conterai i punti fedeltà. Ne mancheranno solo un milione per vincere un pezzetto bello tondo di cielo d'estate.  

venerdì 19 novembre 2010

Seicento secondi.

Da dieci minuti è passata la mezzanotte. Da dieci minuti un nuovo giorno è cominciato. Dieci minuti fa era un po' più giovane. Ora è un po' più vecchio: dieci minuti in più. Seicento secondi, seicento battiti. Contati uno ad uno, con attenzione, con timore. La luna è uno straccio bianco appeso al vetro, un alone, una macchia nel cielo. La polvere è lì, sul vassoio d'argento. In attesa. Non ci resterà molto. Bianca come la pelle di questa notte, come la neve dell'altro ieri. Scendeva copiosa, fiocchi soffici, quasi caldi. Un mistero per un posto adagiato sul mare. Nel mese di agosto, i bagnanti vocianti con doposci ai piedi. Poi tutto è tornato normale. La spiaggia dorata, i pattini nell'acqua salata, le ragazze in bikini. Ombrelloni, sdraio, lettini, creme, secchielli, palette, bambini, bagnini e il vecchio juke-box che tanto ha fatto sognare.
Seicento secondi, seicento battiti. E' tempo di spolverare.  

giovedì 18 novembre 2010

Mare immobile.

Dalla finestra guarda un mare immobile. Una striscia blu sopra a tetti rossi. Un graffio nel cielo, un Campari Soda, una fantasia. Ha già fatto le valigie ma rimane ad aspettare. Si è messo in lista. Pensa a quello che non aveva mai pensato. Immagina cose mai immaginate. Mille modi di odiare, di amare. Nella testa ha tutta la musica che ha accompagnato i suoi sogni. In una mano le chiavi dell'appartamento dove si è perduto, nell'altra una sigaretta spenta. Non avrebbe mai voluto farle del male ma le conficcò lo stesso una lama nel cuore. Non avrebbe mai dovuto farle del male ma le spaccò lo stesso il cuore. Poi si amputò il dito medio della mano sinistra e lo mangiò. Poi telefonò ed aprì la porta. Quando arrivarono annunciati da una sirena spiegata, lo trovarono alla finestra. In silenzio guardava un mare immobile, una striscia blu sopra a tetti rossi.  

martedì 16 novembre 2010

Cartolina.

Nel cielo c'è un buco, nel buco nemmeno una stella. Ferma davanti alla cassetta della posta con una cartolina in mano non ricorda più quello che deve fare. Soffici fiocchi di neve cadono da un tetto di panna imbiancandole il cappotto blu. Da mezz'ora si ritrova persa in un canto perfetto da cantare in silenzio. Ne conosce ogni sfumatura, ogni nota. Una canzone meravigliosa che sempre le dedicava, ma di lui non riesce più a ricordare la voce. Di lui ha solo una immagine muta con la gola tesa. Eppure cantava, solo poco tempo fa. Sorrideva del suo sorriso col quale andava incontro alle occasioni. Questo lo ricorda bene. Ma la voce, la sua voce, com'era? Le labbra erano ben disegnate, turgide, calde, affamate d'avventura. Da quel paradiso uscivano gli angeli quando parlava, dolcemente, con parole che avvolgevano, accarezzavano, baciavano. Ancora si emoziona nel rivederle esplodere illuminate dal bianco scintillante dei denti. Ma la voce, la voce, com'era? Per anni ha potuto udirla, goderne ed ora niente, perduta, svanita e le sembra impossibile, terribile. Lì, davanti alla cassetta rossa della posta, con una cartolina d'auguri in mano, da imbucare. Ma certo, che stupida: " Tanti Auguri!!" Buon Natale!".  

lunedì 15 novembre 2010

Inverno.

Il chimico posteggiò la cinquecento L, spense il motore, aprì la portiera e scese. Camminando lungo il bordo della strada giunse ad una fermata del filobus dove decise di fermarsi ad aspettare l'inverno.
Il vegetariano sovrappeso si guardò nudo allo specchio e si vide troppo grasso. Poco dopo, con abiti da jogging, correva lungo il bordo della medesima strada. Arrancando raggiunse la pensilina della fermata del filobus, vi si appoggiò ansando e decise di fermarsi ad aspettare l'inverno.
Il geometra volò da casa all'areoporto a bordo della sua decapotabile ascoltando musica rock. Senza bagaglio si diresse al check-in, regolò le pratiche d'imbarco e si avviò verso il Gate 3 dove l'attendeva un Boeing 747 per Cuba. Passando davanti ad un bar dell'aereostazione decise di sedersi ad un tavolino per bere un drink. Ordinò un Cuba Libre e si sedette. Guardando attraverso la grande vetrata che dava sulla pista di decollo vide l'aereo che aspettava. Sorrise stringendo il bicchiere raffreddato dai cubetti di ghiaccio, poi lo avvicinò alle labbra, ne assaporò il contenuto e si addormentò sognando di aspettare l'inverno.
Il batterista gettò nella discarica il suo strumento ed una bacchetta, l'altra la tenne per ricordo. A causa di un enorme buco nella memoria decise di smettere con la musica. Tornato a casa, lisciò il pelo al gatto e si distese sul divano. Con gli occhi aperti fissi al soffitto pensò ai suoi due figli ormai grandi e li vide correre nel sole dell'estate. Si dissse soddisfatto per come aveva contribuito a crescerli, chiuse gli occhi ed aspettò l'inverno.
L'albergatore comparve dietro la porta dell'ascensore che si apriva sulla hall ormai vuota. Da tempo l'albergo era chiuso e l'unico cliente era il suo grosso cane che sonnecchiava sdraiato su di un tappeto persiano proprio nel mezzo della sala. Un grande peluche di Snoopy, dal banco ricevimento, lo fissava. Attraversò la hall sbirciando il cane che non scodinzolò e,  ignorando l'amico di Charlie Brown, aprì la porta ed uscì sul lungomare. Il mare era mosso, si udiva il violento frangersi delle onde. Attraversò la strada e mise i piedi nudi sulla sabbia. Lentamente, passo dopo passo, si avvicinò alla battigia. Quando le dita toccarono l'acqua si lasciò cadere e trasportare dalla corrente. Galleggiando con gli occhi rivolti al cielo andò incontro all'inverno.
Lo scrittore pensò a loro ed ad altri avvolto dalle volute blu dell'ultima sigaretta di una notte piena di fumo. A loro dedicò i suoi pensieri e un gesto della mano. Poi spense la luce ed andò a dormire. Era inverno ma non se ne accorse.

domenica 14 novembre 2010

L'equilibrista.

   Si poteva pensare che fossi pazzo. Solo, sballottato dalle onde, coperto di sale. Non era così. Lui era un equilibrista. Uno abituato a camminare sospeso su di un filo d'acciaio teso tra due infiniti. Passo dopo passo, lentamente oscillando avanzava. Guardando avanti, senza mai abbassare lo sguardo, gli occhi fissi puntati su Dio. Figlio di un cane e di una gatta siamese aveva imparato presto a danzare sul filo cominciando da piccole altezze fino a giungere a quelle incredibili. Era salito talmente in alto che nessuno quasi riusciva più a vederlo, ormai passeggiava tra le nuvole, nell'immenso blu. Se qualcuno gli avesse chiesto "..perchè?..", lui avrebbe detto "..perchè no!..". A chi gli avesse domandato " ..cosa cerchi?" avrebbe risposto ".. quello che non ho!..". Nel cielo, dove viveva, l'aria era leggera e i sogni possibili. Quando ci arrivò la prima volta tanto gli piacque che decise di mai più tornare, di restare lassù, sospeso per sempre. E' ancora là. Nelle notti calde d'estate, se guardi dove finiscono le stelle, lo puoi vedere. Non ti cambierà la vita, non ti insegnerà niente, semplicemente ti fermerai a guardarlo, per ore ed ore fino a perderne il conto. Ti meraviglierai di quanto il tempo sia solo una convenzione.
A me è successo così. Ero solo, sballottato dalle onde, coperto di sale. Stremato stavo per affogare poi tutto si è fermato ed oggi sono qui a guardarlo passeggiare. Non so se sia stato lui, l'equilibrista, a salvarmi, ma mi piace pensarlo.
Si, potete pensare che io sia pazzo. Non è così.

giovedì 11 novembre 2010

Giovanna.

Giovanna seduta sulla riva con i piedi nell'acqua osservava le foglie trascinate dalla corrente del fiume. La sera prima era stata appassionata telespettatrice di uno show dove un guitto fantastico aveva dato il meglio di se ed altri avevano detto cose belle e tristi. Ora, sul fiume, con accanto, appena letto e ben ripiegato, il quotidiano di orientamento moderato progressista acquistato, come ogni mattina, all'edicola del paese sul quale, nella rubrica degli spettacoli, una pagina intera era dedicata al tanto atteso avvenimento e i quattro articoli in essa contenuti erano pieni di elogi per gli autori che l'avevano ideata e gli ospiti che l'avevano animata. Poi c'erano le pernacchie ridondanti, le critiche feroci per chi se le era meritate, tanti "resto perchè.." e altrettanti "vado via perchè.." ed un intervista al cantautore che aveva composto la canzone che dava il titolo alla trasmissione. In cucina, appena sveglia e con la moka sul fuoco, aveva dato una sbirciata alla sua home di Facebook dove gli amici, molti sconosciuti, si sbizzarrivano nel rispondere nei modi più diversi ai "vado.." e ai "resto..". Nessuno le pareva sincero, originale. Quelle piccole frasi somigliavano più che altro ad una specie di gioco di società, anche un po vecchiotto, comprato nel banco delle offerte a saldo in un grande magazzino. Giovanna restava seduta sulla riva con i piedi nell'acqua fresca e il sole caldo, che oggi Dio le aveva regalato, sul viso. Con occhi luminosi ed attenti seguiva la corsa delle foglie colorate d'autunno domandandosi la bellezza cosa fosse, cos'è. Non era una domanda nuova, spesso si ritrovava a porsela ed ogni volta le risposte che si dava non la convincevano pienamente, le lasciavano dubbi e la porta aperta a mille possibilità. Pensava a Pasolini, il poeta e scrittore ucciso in una notte buia in un campetto da calcio della periferia di Roma, cercando di immaginare quello che lui avrebbe scritto o detto se fosse stato ancora in vita. Probabilmente niente perchè lui aveva già detto, previsto tutto molto prima. Forse, intervistato, si sarebbe limitato a sorridere. Oppure avrebbe pianto lasciando scorrere le lacrime sul viso scavato.
Giovanna, seduta sulla riva con i piedi nell'acqua e il sole negli occhi, osservava le foglie trascinate dalla corrente del fiume.                                                                                  

martedì 9 novembre 2010

Marchionne.

Ho sognato Marchionne. Vestiva una tuta blu consunta e sporca da meccanico. Avvolto dalla nebbia di Mirafiori aspettava che i cancelli si aprissero. Nella tasca sinistra aveva un panino con mortadella scaduta, in quella destra una bottiglia di spuma chiara sgasata. Era tutto quello che poteva permettersi a causa del misero stipendio da manager che percepiva. Al di là dei cancelli lo aspettava un operaio squalificato addetto alla catena di montaggio della mitica Duna che nel tempo era diventata un " must " dell'Azienda di Produzione di Automobili nota come FIAT senza LUX a cui aveva giurato fedeltà per l'eternità. Il metalmeccanico indossava uno splendido completo grigio in frescodilana taglio Caraceni abbellito da una pochette color amaranto e calzettoni originali mai lavati usati da Gigi Meroni e, stranamente, somigliava a Carlos Monzon. Quando la sirena suonò, anzi, per la precisione, intonò Funicolì Funicolà e i cancelli si aprirono, un gruppo folk in costume da Pulcinella gli si fece incontro danzando ed invocando Maradona e San Gennaro. Dietro, come in processione, una fila interminabile di giovani operaie bellissime coperte solo da gocce di Chanel n°5 e cassaintegrati che parean modelli usciti dalle pagine patinate di VOGUE ebbri di Champagne. Marchionne non riuscì a muovere un solo passo, rimase immobile, impietrito mentre il festante corteo lo superava senza nemmeno vederlo. Quando anche l'ultimo cassaintegrato scomparve all'interno di una gigantesca Panda 30 adibita a discoteca, si mosse verso l'ingresso dell'amata Azienda. Appena varcato il cancello Monzon alzò un dito intimandogli l'Alt. Marchionne spaventato gli offrì il suo panino con mortadella ed il metalmeccanico ne fece un sol boccone. Poi gli morse e mangiò la mano ingoiandola in un attimo, dopo gli triturò l'intero braccio ed infine gli staccò un orecchio sputandolo subito a terra. Marchionne urlava disperato ma lì non c'era più nessuno, tutti si erano trasferiti in Serbia. Dopo qualche ora giunse una delegazione di operai di colore incazzati venuti appositamente da Detroit per fare con lui quattro chiacchiere ma non erano ne neri, ne gialli, ne bianchi. Erano verdi dalla rabbia, tutti superdotati e gli fecero il culo. Quando ebbero finito si diressero verso il centro della città per farsi qualche birra da vomitare nell'androne della Sede della Juventus. Lui da terra, stravolto forse anche dal piacere, ebbe una visione: Del Piero con l'aureola sulla testa e l'uccellino sulla spalla sinistra. Tese la mano rimasta verso il Santo ma questo non si offerse e l'uccellino gli fece " plin plin " sugli occhiali.
Qui finì il sogno e, come si dice, tutto bene quel che finisce bene.                                                      

lunedì 8 novembre 2010

La locomotiva.

La stanza ha pareti bianche un poco scrostate e luci al neon che illuminano bene tutto il suo squallore. Due sedie malconcie, un tavolo troppo basso con sopra riviste dalle pagine ingiallite, una panca. Seduto su quest’ultima c’è, in mezzo ad altri due, il mio culo. Il primo appartiene ad un signore barbuto, alto, grosso, sui settanta. Parla con la erre moscia ed un forte accento emiliano. Dice di essere stato un cantastorie, anche di successo, ma ora è una locomotiva. Il secondo si agita continuamente, si dichiara insegnante di lettere, storia, filosofia, latino, greco. Sbraita di essere stato ingiustamente sospeso dall’insegnamento da un preside fascista di un liceo classico in Samarcanda. Io ascolto, le mani sulle ginocchia, lo sguardo fisso sul muro dal quale penzola, appesa ad un chiodo malfermo, una riproduzione di un famoso dipinto di Chagall e credo di essere matto.Sull’altra parete c’è un orologio grande, di plastica color rosso con il quadrante bianco e le lancette nere. Segna le nove e quindici. Sono le nove e quindici di una mattina già troppo calda. Oggi è il dieci agosto. Indosso un paio di pantaloni di cotone bianco ed una maglietta blu. Ai piedi un paio di zoccoli tipoinfermiere. Il mio orologio da polso, un vecchio Zenith, con carica manuale, placcato oro, regalo di uno zio nel giorno della prima comunione, fa la stessa ora dell’orologio appeso al muro. Quindi, a meno che entrambi non mentano, sono effettivamente le nove e quindici di un fottuto, afoso, mattino d’agosto.
“Sai che essere una locomotiva, in fondo, non è poi male per un uomo. Ti da un senso di onnipotenza e poi si viaggia. Si va, si torna, belli, precisi. Su bei binari lucenti, scintillanti. Insomma una gran bella, sana, vita!” – Il professore filosofeggiava e l’emiliano locomotore sbuffava. Poi commise un errore, si addentrò in un eloquio sulla modernità, su quanto fascinoso fosse rullare su binari sospinti dalla forza motrice generata dalla corrente ad alta tensione, sulle nuove frontiere dell’alta velocità e via discorrendo. Si udì una voce cavernosa, leggermente alterata, che riempì il vuoto della stanza. “ Io sono una locomotiva alimentata a carbone…Stronzo!” Sullo stronzo, due mani grandi come badili, a forma di tenaglia, si strinsero al collo del piccolo professore di Samarcanda. Ci vollero quattro energumeni vestiti di bianco per liberarlo da quel simpatico abbraccio.

sabato 6 novembre 2010

Walter.

     Walter ruppe un uovo su di una parete e ne guardò il contenuto scivolare lentamente. Decise poi di scrivere un Giallo,  prese dal tavolo una matita gialla e cominciò a scrivere. Non gli piacque. Allora si slacciò le scarpe, le sfilò liberando i piedi. Stirando le dodici dita, ne aveva due in più ma mai se n'era fatto vanto, si domandò dove stesse sbagliando e perchè sbadigliasse nel mentre si rispondeva che no, non era in difetto ma solo infetto. Nel medesimo istante un insetto peloso saliva rapido lungo una gamba della bambola di pezza seduta sulla poltrona in fintapelle che si trovava di fronte a lui. Gli parve che la bambola si agitasse come percorsa da un brivido o da un sentore di solletico. Walter si alzò e si mosse ma non si spostò. L'insetto sparì sotto la gonna di tulle rosa e non se ne seppe più nulla. Suonarono alla porta. Nel medesimo istante il telefono squillò e la segreteria telefonica partì. " Chi è? " - " Amici!..Ma anche nemici." - " Piuttosto ambiguo." rispose. " Si dice in giro che sei solo un bastardo..Lo sai? Pare che dormi nei letti di tutti senza dormire mai."
Poi solo silenzio. Anche la segreteria smise di frusciare. Walter pigiò il pulsante e tese le orecchie. Le tese così tanto che si raddoppiarono in grandezza ma non udì nulla. Si disse che qualcuno probabilmente malediva la sua diversità. Forse non a tutti piaceva la sua abitudine di masticare lucertole e, osservando Dio, si inventò la felicità.

mercoledì 3 novembre 2010

Disteso sull'erba.

Disteso sull'erba, all'ombra di un tiglio, aspettavo una Primavera. Venne, seguita a ruota da un motorino con in sella un ragazzino che mi guardava con sospetto. Dissi " Ciao.." e tutto cominciò. Montando su quella Vespa condotta da un sogno lo osservai. Magro, capelli ricci leggermente scapigliati, con gli occhi infuocati di chi sa che qualcun'altro, venuto da Marte, gli ruberà il suo di sogno. Guidava il Benelli tre marce con la distrazione dell'innamorato e la furia di uno scienziato. Oggi è un umanista e forse furono quelle stradine di campagna, quelle curve scivolose, quelle salite e discese percorse anche di notte sotto milioni di stelle durante quella fiabesca estate a farlo derapare verso lidi frequentati da poeti e scrittori. Procedevamo spediti, circondati da odorosi prati, sulla tortuosa salita che portava alla Canonica. La mia autista era provetta e spericolata motociclista figlia di un motociclista, lui restava in scia cercando di non sbagliare nello scalare le marce. Arrivammo ridendo felici e la Primavera si spense. Scendendo mi voltai e lo vidi sgommare sgasando via. Lo salutai con la mano ma lui non se ne accorse, era già lontano. La sera dopo lo rividi e conobbi il suo nome. Giocammo a bocce, ma questa è un'altra storia.

martedì 2 novembre 2010

Jesus.

  Si definiva anarchico, forse più per amore di un nonno che per pura convinzione, e in una ormai lontana estate scarrozzò sulla sua auto di plastica decapottabile uno Jesus qualsiasi. In continua lotta tra una libertà presunta di pensiero e la prigionia reale del portamonete si mostrava agli altri pensando a se stesso. Così facendo divenne quasi un mito nel luogo in cui viveva, riconosciuto da tutti, quasi una fusione tra Sacco e Vanzetti o un figlio di un figlio di Zola. Partecipava ad ogni iniziativa politica di area ultra sinistra con distaccato accanimento. Sempre in prima fila ad assistere a Consigli Comunali sinistri, riconoscibile per la chioma scapigliata, l'abbigliamento trasandato, la bassa statura e quell'espressione attenta e leggermente sardonica di chi pensa di essere un candelotto di dinamite bello pronto a saltare per aria. Nei bar di paese beveva con tutti quelli che offrivano dandogli pacche sulle spalle, un po meno con altri meno espansivi e generosi. Fumava molto, come si conviene ad ogni bombarolo che si rispetti, ma se gli chiedevi una sigaretta te la offriva come se fosse l'ultima necessaria ad accendere la miccia. Figlio di un inventore nonchè accanito cercatore di funghi e di una inossidabile giocatrice di Ramino era giunto intorno ai vent'anni indossando completi in Principe di Galles forse sognando i dandies di Londra. Corteggiava le donne ma queste non se ne accorgevano. Così, come quasi sempre succede, gli insuccessi amorosi lo  spinsero a rivedere le sue idee e nel suo bozzolo scelse di non tramutarsi in un baco da seta bensì in una farfalla. Quando ne uscì, munito di borsello, si vide nello specchietto retrovisore di una Lambretta e si piacque parecchio. Quelli che seguirono furono anni di frenetico sfarfallio, un po per tutti e, quindi, anche per lui. Spesi tra tavoli di osterie apparecchiati con tovaglie intrise di propositi di rivoluzione, in fumose serate di musica rock o jazz ma con un occhio sempre rivolto alla squinzia di turno, a cui cercava di inculcare l'ideale anrchico fatto di piena libertà d'azione, di elasticità mentale ed, in ultimo ma non per ultimo, di completa apertura di gambe. Alla fine restava solo, le gambe rimanevano fermamente chiuse, sul tavolo un bicchiere di rosso, dal mangianastri una canzone dei Nomadi. Oggi non so se si professi ancora anarchico, se fumi ancora sigarette francesi, se viva ancora di sogni. Qualche volta lo vedo passare su una moto giapponese o scendere da una monovolume. Abbigliamento ordinato, capelli dal taglio curato, con in tasca un IPod al posto della dinamite. In una lontana, calda estate scarrozzò sulla sua auto di plastica uno Jesus qualsiasi: chissà che fine ha fatto.                                                                                  

Batman

 Da tre mesi sono ospite in una pensione nel quartiere del porto.Nella stanza vicino alla mia vive da due anni un transessuale che batte sui controviali intorno alla stazione e, una notte sì e l’altra anche, torna pesto, ma lui dice che in fondo non gli dispiace perchè è nato a Genova. Humor tipicamente anglosassone e si sa che i genovesi adorano l’Inghilterra. Si chiama Antonio, ha la barba, ma per tutti è  la Roberta. Ogni volta che mi incontra, sorride e mi chiama amore. Io lo mando regolarmente a fanculo e lui risponde che, pur non sapendolo, sono un buongustaio e se ne va sculettando, emettendo una serie di sospirati gridolini, inseguita da un secondo fanculo condito da un troia. Nella stanza  dirimpetto al cacatoio, abitava, da non so quanto tempo, un vecchio che, si dice, avesse lavorato come nano, anche se era alto circa un metro e ottanta, al circo di Darix Togni.
Si chiamava Andrea, ma per tutti era Batman, non perchè facesse numeri acrobatici, ma a causa del tremore che gli procurava   il morbo di Parkinson, che lo aveva colpito e gli faceva battere le mani. Circa un mese fa gli regalai delle bacchette da  batterista che avevo rubato in un bar dove suonavano spesso del jazz e lui si trasformò, dotato di temperamento artistico com’era, in un novello Max Roach, fracassando tutto ciò che trovava sulla sua strada. Batman era davvero incredibile. Un  giorno qualcuno gli disse che, con un nome simile, avrebbe sicuramente potuto volare e lui si gettò dalla finestra del terzo piano, agitando le bacchette e, dopo avere sfondato la tettoia in plexiglass della lavanderia a gettoni sottostante, andò in mille pezzi. Si dice, che le mani intrise di Parkinson, come la coda mozza di una lucertola, continuarono a  muoversi, per qualche minuto, suonando un ritmo in levare.

lunedì 1 novembre 2010

Pensiero stupendo.

   In un altro mondo, prigioniero. Mi accarezzo dentro. Stendo al sole la mia mente e progetto il mio passato. Forse è un sogno oppure no. Al collo ho un collare incatenato ad una catena di diamanti e l'altro capo è tra i denti scintillanti di una scimmia. Procediamo lentamente insieme attraverso l'universo. Al mio fianco destro un buffone suona una fisarmonica sibilando una litania che incita a non desistere. Alla mia sinistra una folla di nani altissimi, infinita, assiste in silenzio. Inciampo, cado. La scimmia si ferma, si volta, mi guarda con occhi di ghiaccio da puttana consumata e, ghignando, da uno strappo alla catena. Il collare mi graffia il collo, sanguino. Il buffone aumenta l'intensità del canto, la folla improvvisamente applaude eccitata. Mi rialzo, riprendo il cammino. Cerco di capire dove sono diretto e perchè. Alzo gli occhi al cielo e il cielo non c'è. Niente sole, ne luna, ne stelle. Non è giorno e nemmeno notte. Sotto i miei piedi scalzi la strada è bianca, fatta di sale. Cammino da ore ma ora che ci penso mi accorgo che sono sempre allo stesso punto, praticamente fermo. Fermo e nudo. Non sento freddo ne caldo. Nessun dolore. Niente. In un'altro mondo, prigioniero. Mi accarezzo dentro. Stendo al sole la mia mente e progetto un pensiero stupendo.