giovedì 30 giugno 2011

Il Maestro del piffero.

Quella notte prima scrisse una polka poi, col pennarello nero, si tinse i capelli.
I fratelli, nella stanza accanto, giocavano agli indiani scalpandosi con dolcezza.
Il gatto gli chiese una birra e lui si alzò e, sbuffando, andò in cucina. Quando aprì il frigorifero uno squalo gli morse il naso. Perse parecchio sangue ma riuscì  ad agguantare una Beck's. Dalla tasca bucata del pantalone recuperò un cavatappi e lo gettò nel bidone dell'immondizia. Subito dopo ruppe il collo della bottiglia e, già che c'era, anche le prime due vertebre. Quando udì il gatto lamentarsi per la lentezza nel servizio, chiamò a raccolta, suonando un piffero, tutti i topi di fogna del quartiere. Uno solo si presentò e gli consegnò un foglio di giustificazione a nome di tutti gli altri: " Spiacenti Signore ma siamo impegnati a cotonarci il pelo. Appena finito saremo da Lei, sempre che riesca a suonare intonato. Distinti saluti.
I topi di fogna."
I fratelli, nella stanza accanto, giocavano alle mummie bendandosi con dolcezza.
Bussarono alla porta, prima piano poi piano.
Andò ad aprire, sull'uscio c'era un piano, con la coda di paglia, vestito di nero. Sorrideva con denti d'avorio e disse di chiamarsi Sam. Lo informò che qualcuno, poco prima, in un bar pieno di fumo e puttane scadute, aveva sparato al pianista, contravvenendo ad ogni regola di buona educazione, e lo implorò di fare due note.
Il gatto oramai urlava tutta la sua disperata sete graffiando nervosamente le poltrone in similpelle del salotto.
Nella stanza accanto, i fratelli giocavano alla caccia alle streghe linciandosi dolcemente.
Il piano piangeva struggenti note e lui ne ebbe compassione.
Decise così di sedersi e suonare ma mancava lo sgabello. Chiese al piano di pazientare un attimo e corse in salotto. Qui prese il gatto  per la coda e lo sbattè con violenza contro un busto in marmo di Bach. Poi, con la bestia tramortita avvolta al collo come una sciarpa, tornò indietro portando una sedia. Il pianoforte, appena lo vide, tornò di buonumore e mise a nudo i suoi tasti. 
Durò poco. Appena i primi accordi risuonarono nella notte buia, qualcuno, dalla finestra di fronte, gli sparò con un bazooka e fece centro.
La notizia del brutale assassinio del Maestro fece, velocemente, il giro di tutta la città. In pochi se ne stupirono.
I topi di fogna, ancora intenti a sistemarsi i bigodini, dissero che, loro, lo avevano avvertito.

sabato 18 giugno 2011

Bestiario n° 3.

Il solleone si levò all’alba e ruggì improvviso.
Il pesce rosso, disturbato dal rumore, lasciò la boccia di vetro e decise di andare al mare in autostop.
La gallina fece l’uovo cubico. Il fattore, con un pennarello nero in mano, ne pretese, per il giorno dopo, un altro uguale, per poter giocare, la sera, a dadi con la moglie. La gallina lo accontentò. Per fargli una sorpresa lo depose, di nascosto e nella notte, dentro al frigorifero. La mattina dopo la moglie del fattore lo trovò e lo sciolse nella minestra. Due ore più tardi l’uomo, deluso, decise di tirare il collo alla gallina. Poi la spennò e la mise sul tavolo della cucina. La moglie completò il brodo. Dopo cena si accontentarono di giocare a scopa.
Il cavallo da tiro, dopo essersi fatto una presa di tabacco, si dichiarò stanco ed acquistò, a rate, un divano a sei posti. Il commerciante di mobili, in luogo dello sconto, gli regalò una coperta di crine e un cuscino di fieno. Il cavallo ne fu contento. Chiese che il divano gli fosse consegnato, la sera stessa, presso la sua stalla, Via dei Carrettieri 23, piano terra. Quando due deboli facchini del negozio arrivarono trascinando il divano scivolando sugli escrementi, la televisione era già accesa, la birra fresca sul tavolo. Dopo averlo piazzato vicino alla stalla del maiale, il cavallo si sdraiò ed accese la TV. Si addormentò, in un attimo, guardando, senza interesse, un concorso ippico. Il maiale ne approfittò subito, prese il telecomando e selezionò un canale porno. Si titillò velocemente godendo, naturalmente, come un maiale.
La vacca, come sempre arrapata, udendo i grugniti di piacere del porco, si eccitò e cercò il giovane toro che risultò esser chiuso, come sempre, nel bagno, impegnato a darsi dello smalto rosa sugli zoccoli e, per l’ennesima volta, la centrale del latte andò in bianco.
Il gallo cantò fuori orario rompendo i timpani a tutti.
Gli animali della fattoria si riunirono in un’assemblea straordinaria per risolvere il problema.
Venne deciso, dopo breve discussione, di eliminarlo.
Della cosa furono incaricati due topi di fogna e un gatto siamese.
I tre sicari organizzarono un piano perfetto e lo misero in discesa vicino ad un burrone.
La vittima venne attirata usando come esca la meglio gallina del pollaio, spennata e profumata al punto giusto.
Il gallo si presentò all’appuntamento galante con un mazzo di rose e una manciata di vermi.
Furono baci e furono sorrisi poi furono soltanto fiordalisi.
Nella casa di campagna tornò il silenzio e la pace. Durò poco.
La sera stessa la volpe e la faina aprirono una discoteca.
Per l’inaugurazione, a far da colonna sonora, venne invitato il gruppo dei Giganti.
Questi risultarono troppo alti e non riuscirono ad entrare.
La serata venne annullata e gli ospiti, ormai pronti per far festa, rimasero delusi, tranne le oche che non riuscivano a smettere di ridere.
Venne la notte e sul bestiario, stremato da una giornata a dir poco bestiale, calò l’oscurità.
La civetta, dopo un paio di moine, accese i fari, mise in moto e volò via.

venerdì 17 giugno 2011

La Cinquecento L.

La Cinquecento L bianca, con il tettuccio di tela nera aperto, era parcheggiata sotto casa, pronta a partire. Il sedile posteriore pieno di roba e, sopra, l'immancabile mazzo di garofani rossi che, al tempo, chiunque lasciasse la Riviera per altri lidi portava con se. Dopo un quarto d'ora di raccomandazioni e saluti della nonna, che gli imponeva il solito mazzetto di prezzemolo sulla pancia come rimedio, probabilmente di sua invenzione, contro il mal d'auto, sua madre si mise al posto di guida e lo chiamò: " Nino! Dai! Muoviti!".
Corse ed aprì la portiera, montò in auto sistemandosi sul sedile accanto. Lei alzò la leva del motorino d'avviamento e la piccola utilitaria, dopo un paio di sobbalzi, andò in moto. Nino sentiva le vibrazioni del motore sotto al sedere ed una grande emozione percorrergli tutto il corpo. Aveva otto anni e quello era il suo primo lungo viaggio in auto verso una destinazione sconosciuta. Più di cinquecento chilometri, una distanza che, allora, gli parve infinita.
Il posto dove erano diretti si trovava in Provincia di Grosseto, nella zona di Orbetello, in fondo alla Toscana. La sera prima, dopo aver visto Carosello, prima di addormentarsi, aveva consultato l'Atlante Geografico De Agostini annotando su un foglio a quadretti tutti i nomi delle località della zona. Sul retro disegnò una cartina stradale segnandovi le città più importanti, che avrebbero incontrato lungo la strada, evidenziandole con un cerchietto a penna rossa. C'erano Imperia, Alassio, Savona, Genova, capoluogo della Regione, Portofino, che qualcuno gli aveva descritto come un posto stupendo, La Spezia. Qui finiva la Liguria e si entrava nella Toscana, ed ecco Massa Carrara, nota per le cave da cui si estraggono marmi di gran pregio, Viareggio, Forte dei Marmi, Castiglione della Pescaia e, ancora, giù fino in Maremma, terra di cowboy nostrani, bufale e gustose mozzarelle, l'Argentario, promontorio selvaggio bagnato dal mare e, infine, la loro meta, Ansedonia.
Appena partiti la tirò fuori dalla tasca dei pantaloni e la distese sul cruscotto.
Sua madre la vide e gli domandò cosa fosse quel foglio con tutti quei segni e quelle scritte.
Glielo spiegò e lei rise forte, staccò la mano destra dal volante ed accarezzandogli la testa disse: " Una cartina stradale?Allora non ti fidi di me!" e rise di nuovo.
Sull’eco, sull’onda di quella risata il tempo è volato.
Sono accadute talmente tante cose che pare non sia successo mai niente.
Nino, da allora, non ha più disegnato carte stradali. Si è fidato solo delle stelle anche quando il cielo risultava coperto dalle nuvole ed il buio era assoluto. Ha perso così spesso la via che, comunque, una cartina non lo avrebbe aiutato. E poi, se ancora è qua, lo deve al cuore, non alla vista.
Ora, lei, non ride quasi più.
La sera, seduta accanto ad una finestra, guarda una piccola piazza deserta.
Cerca con gli occhi, con l’ansia dei vecchi, qualcosa, qualcuno che sappia raccontarle, bene, la fine della storia.
Da sotto Nino la osserva, triste la guarda guardare.
Lei alza una mano, saluta.
Lui sorride. Risponde al saluto.
Poi si avvicina alla macchina, apre la portiera, sale. Mette in moto.
Guida piano immaginandosi vecchio.
Si vede, a sua volta seduto, su di una sedia accanto ad una finestra ad aspettare, in silenzio, qualcuno che sappia raccontargli, bene, la fine della storia.
Spera solo che, quando verrà quel momento, dalla sua finestra, si veda il mare.

mercoledì 15 giugno 2011

Tutto il resto è quorum.

Al primo quarto di luna, durante un’accanita partita di scopone scientifico, il matto giocò il settebello. Questo pretese uno specchio prima di scendere sul tappeto verde. Nacque una violenta discussione. Il matto dava di matto, il settebello, impettito, continuava a rifiutarsi di giocare se prima non gli avessero dato almeno un poco di rimmel agli occhi. Dalle parole si passò presto ai fatti e il matto si mangiò la carta bella. Napoleone, seduto accanto al matto, ne approfittò subito, mosse rapidamente le truppe e fece scopa. La Bella di Torriglia, socia del matto, protestò vivacemente, poi morse con rabbia il naso di Superman. Quest’ultimo, in coppia con Napoleone al tavolo da gioco, nel tentativo di liberarsi dal morso, le ruppe in testa un pezzo di kriptonite. Intorno a loro si radunarono alcuni idioti vestiti di verde che si misero ad urlare - Ce l’abbiamo duro! Ce l’abbiamo duro!- riuscendo, alla fine, ad incularsi a vicenda. Il trambusto richiamò gli inservienti che giunsero in forze portando, ognuno, una  camicia di forza. La rissa durò qualche minuto poi tutti furono impachettati. Il matto, legato come un matto, disse agli infermieri – Ma siete matti?- No – rispose uno di loro – i matti siete voi. E se non la piantate di rompere i coglioni vi facciamo mangiare i vostri! -
La Bella di Torriglia, un vecchio transessuale genovese che negli anni settanta aveva fatto sfortuna vendendo sigarette di contrabbando, disse che non gli importava e riprese a far casino. Tanto lui, da tempo, non li aveva più, avendoli barattati, trent’anni prima, con un paio di tette, a Casablanca.

Al secondo quarto, il Presidente del Consiglio, durante l’ultimo Bunga-Bunga, si sfilò un intonso settebello lasciando la mazza nuda. Questa, floscia come sempre, disse – Basta! Non ne posso più! Mi sono rotta!- Il dottore di corte constatò che aveva ragione e decise di sopprimerla con una puntura al cianuro. Morì in un attimo e senza soffrire. Le ancelle piansero disperate scoprendo, la mattina dopo, presso la locale agenzia bancaria, che gli assegni ricevuti in dono per la serata non avevano copertura. Il Premier venne tumulato nel suo mausoleo in marmo bianchissimo di Carrara. Lo seppellirono, approfittando del rigor mortis, col cazzo duro e in bella vista. Utilizzando l’antico metodo egizio, alcuni anziani truccatori di Canale 5, ne fecero una bella mummia. Il giornalista di fiducia diede la triste notizia nel suo telegiornale. Poi le trasmissioni vennero definitivamente chiuse. Il capo era morto, i servi, liberi di leccare da un’altra parte, cercarono il culo dei giudici ma vennero arrestati e furono condannati a vagare, in una Porto Rotondo completamente abbandonata, per il resto della loro vita, ripulendo le siepi di rosmarino da aragoste congelate e tappi di spumante.

Al terzo quarto, Bersani disse:- Non siamo mica qui a tagliare gli angoli ai toast! – non contento aggiunse:
- Non stiamo mica qui a rubare le noci agli scoiattoli! -
Lo lasciarono lì, solo, a dire le sue cazzate. In fondo non faceva male a nessuno, anzi era pure simpatico.
Lui non lo seppe mai, ma in parecchi decisero di fare senza. Fondarono un nuovo movimento, poi un partito certamente democratico, si presentarono alle elezioni, vinsero e governarono a lungo e bene. Il Paese si riprese, divenne un modello da imitare per l’intero mondo, balzò in testa ad ogni classifica di merito.
Al vecchio segretario riservarono un ruolo da capocomico e lui divenne una star dello spettacolo soppiantando anche Benigni. Questi non se la prese a male, si trovava benissimo al Quirinale.

L’ultimo quarto, nemmeno il tempo di accenderlo e fu luna piena. Tutti dissero:- Si! –
Tutto il resto è quorum.

lunedì 13 giugno 2011

Bastian contrario.


Nonostante non avesse molto da dire parlava parecchio.
Al paese era noto come il Bastian Contrario.
Fin da bambino aveva dato sfoggio di questa sua capacità. All’asilo discuteva spesso con le suore che si occupavano con amore, da sempre, delle piccole speranze della comunità. Suor Gertrude, famosa per aver lasciato su una manciata di ceci un certo Giuliano, detto Pancho Villa, per un’intera settimana, era l’unica a prestargli attenzione. Sperava di coglierlo, prima o poi, prossimo ad un peccato non veniale, così da potergli impartire una lezione esemplare. Nelle sue fantasie erotiche notturne ce n’era una costante: appenderlo per i coglioni al gancio da macellaio che faceva paurosa mostra di se proprio nel mezzo del refettorio. Il nostro, pur rompendo le scatole per tutti gli anni d’asilo, non cadde mai in fallo e riuscì a salvare, con sommo dispiacere dell’amorevole sorella, i beni più preziosi che il Signore gli aveva donato. Lui ancora non lo capiva ma il futuro, che l’attendeva, glielo avrebbe spiegato chiaramente.
Alle elementari, per tutti i cinque anni, pretese di risolvere i problemi di matematica o grammatica scrivendo con la lavagna sul gessetto. La maestra tentò inutilmente di dissuaderlo, cercando di fargli capire quanto pesasse la lavagna e quanto fosse più comodo usare gli ausili didattici nel modo consono, ma lui niente, insisteva. Dopo un lungo periodo di allenamento, con sudatissime serie di pesi in palestra, riuscì finalmente nel suo intento e, ribaltando e sollevando sopra la sua testolina la lavagna, scrisse un intero dettato su un quintale di gessetti bianchi. Il Preside s’incazzò parecchio per il consumo inaudito di materiale didattico e chiamò a rapporto i genitori della piccola testa di cazzo.
Questi si presentarono acconciati al contrario. Il padre si vestiva da donna, la madre da uomo.
Il primo faceva le veci della seconda, questa del primo. Spiegarono che il loro amato figliolo, da tempo, aveva preteso che i due facessero così e li aveva convinti snocciolando teorie filosofiche, psicologiche e di comportamento, per loro incomprensibili ma formulate dal piccolo con tale trasporto che non avevano potuto fare a meno di accontentarlo. Il padre concluse l’incontro, gettando definitivamente nella disperazione il vecchio insegnante, ammettendo di trovarsi piuttosto bene nei panni di una puttana.
Il piccolo diventò ragazzo e passò alle medie inferiori.
Qui diede dimostrazione di un’eccellente capacità di testardaggine riuscendo sovvertire l’ordine di ogni cosa. L’intervallo, nel periodo della sua permanenza, divenne il momento didattico più importante, le equazioni si poterono risolvere al di là di ogni regola, la lingua straniera soppiantò l’italiano, l’ora di educazione fisica fu presa alla lettera e trasformata nell’ora di massimo godimento. Le compagne di scuola ne furono subito affascinate e coinvolte. Una, particolarmente interessata alle lezioni, travolta dall’estasi, volò talmente in alto che ancora la stanno cercando.
Quando gli consegnarono la licenza media in molti piansero dalla disperazione nel vederlo andare via. L’anno dopo entrò in un liceo classico.
Subito pretese che la scritta sul portone fosse cambiata in liceo avveniristico, poi impose ai bidelli di non suonare la campanella e di mettere una fetta di pane tra due di salame. Cambiò ruolo ai professori trasformandoli in alunni ignoranti e sfaccendati, passò dall’orario diurno a quello notturno, aprì nell’aula grande una discoteca. All’esame di maturità si dichiarò immaturo ma nessuno gli diede peso. Ormai si erano abituati talmente tanto alle sue stranezze che lo licenziarono a pieni voti, sessanta/sessantesimi. Lui pretese che sul diploma avveniristico il punteggio fosse scritto al contrario. Lo accontentarono ancora una volta e gli diedero imisetnasses/atnasses.
Contento, si iscrisse all’Università, Facoltà: Faccio quello che voglio.
La laurea arrivò in un battibaleno grazie alla sua forbita retorica ed un’inossidabile tenacia nel rompere le palle a chiunque, fossero illustri cattedratici o semplici aiuti, improvvidamente gli ponesse una domanda.
Con centodiecielode e diritto di pubblicazione entrò nel mondo del lavoro.
Assunto da un’Azienda dell’hinterland napoletano, specializzata nel recupero crediti e smaltimento rifiuti, il primo giorno si presentò, in sella alla sua amata bicicletta con le ruote quadrate, abbigliato da vecchio boss mafioso, con tanto di coppola e fucile a canne mozze, parlando uno stretto dialetto siciliano.
I datori di lavoro non la presero bene e questa volta gli andò male.
Quando, la sera stessa, gli chiesero di entrare in un pilastro di fresco cemento armato preparato, appositamente per l’occasione, in suo onore, lui obiettò che si dispiaceva ma non riteneva di avere colpa se vedeva tutto al contrario. Parlò per due ore all’incaricato dello smaltimento che, gentilmente, lo ascoltò con attenzione.
Alla fine, senza batter ciglio, il sicario gli disse che capiva il suo particolare punto di vista e avrebbe fatto di tutto, pur avendo una certa fretta, per venirgli incontro.
Lo immerse nel cemento a testa in giù.

giovedì 9 giugno 2011

Il ponte di stelle.


Quando, in una notte d’estate appesa ad una luna piena, riuscì ad attraversare il fiume camminando su di un ponte di stelle, si disse che non era una magia e lui non era un mago.
Non possedeva una bacchetta, ne un cilindro. Non aveva poteri soprannaturali.
Lui era solo un uomo. Uno convinto che tutto si poteva fare se si aveva fiducia nella fantasia.
In fondo anche guardando, con attenzione, una semplice lampadina si poteva avvicinare il sole. No, non si sentiva un principe delle illusioni. Qualcuno, forse un borghese seduto, non ricordava bene, un giorno glielo aveva detto, accusandolo di vendere fumo.
No, non era un tabaccaio, il fumo mai lo aveva venduto, ne creato.
Si qualche volta aveva fumato, riuscendo persino a formare, con fantastiche volute blu, degli anelli tremolanti ed immensi che avevano preso la via del niente spinti da nessuno.
In quel niente lui volava e dentro trovava tutto.
Il mondo, a volte tossico, altre rassicurante. Ci trovava la domenica, l’estetica, la provincia stanca, le città furiose, l’estate, l’autunno, la compagnia e la solitudine. Le nuvole. La bicicletta. Musica.
Alla domanda di cosa fosse la vita per lui, rispondeva allargando lentamente le braccia, avvicinandole subito dopo ai fianchi facendo scomparire le mani nelle tasche di pantaloni inesistenti.
Lui da sempre nudo regalava vestiti.
Li tagliava e cuciva con la passione e l’abilità di un grande sarto senza, per questo, definirsi stilista degli dei. Eppure di stile ne aveva parecchio. Avrebbe potuto tranquillamente farlo fruttare semplicemente spargendone i semi dorati sui terreni aridi su cui, spesso, aveva passeggiato, leggero. Non gli importava, non gli era mai importato.
Ti guardava con occhi che entravano diritti nel cuore, spaccandolo. Non avevano un colore, erano arcobaleni. Caleidoscopi fantastici.
Poi, in una notte d’estate violentata da una luna piena, si costruì un ponte di stelle, un graffio nel cielo, e passò il fiume. 

Il concorso.

Lorenzo lesse, sulla rivista Felici in mezzo ad una strada, il bando di Concorso per cinquantamila posti da Nuovo Povero, indetto dal Ministero delle Pari Opportunità in collaborazione con quello, appena costituito dal Governo, della Pubblica Distruzione e decise di iscriversi e partecipare.
Le prove, tutte pratiche, impegnavano il candidato nel:

1)      Farsi tagliare tutte le utenze riuscendo a non saldare, né prima né dopo la scadenza, le bollette inerenti servizi necessari alla vita ordinaria, ad es.: gas, luce, acqua, etc. etc., mettendosi in fila in un qualsiasi Ufficio Postale parlottando tra se, nervosamente a voce alta, maledicendo il giorno in cui è nato.
2)      Essere moroso da almeno sei mesi nel regolare l’affitto dell’abitazione occupata se inquilino o, nel caso sia proprietario sotto ipoteca di Istituto Bancario, risultare inadempiente ad almeno tre rate del mutuo e a tutte le tasse relative alla proprietà immobiliare. Verranno ritenuti non validi, ai fini della graduatoria di merito, i casi di evasione fiscale.
3)      Farsi cacciare a pedate da un qualsiasi supermercato, meglio se Discount, tentando di utilizzare la Social Card, generosamente donatagli dallo Stato con un credito di zero euro, per pagare la spesa.
4)       Risultare definitivamente abbandonato da coniuge, figli, altri parenti, amici e animali domestici, ad esclusione dei topi di fogna sempre che, questi, siano consenzienti a restargli accanto.
5)      Avere in soffitta, in una valigia di cartone, il necessario per togliersi la vita senza far troppo rumore.

Lorenzo ritenne le prove facilmente superabili e, il giorno fissato per la selezione, si presentò convinto all’Ufficio Postale. Quando, dopo un’ora di fila impaziente, giunse allo sportello, consegnò all’impiegato, che lo fissava sardonico al di là del vetro, una pila impressionante di bollettini di c/c, pari ad un importo di novantamilasettecentoottatasei euro e due centesimi che, da tempo immemorabile, aveva ammucchiato in una scatola da scarpe, quasi nuova, prelevata da un cassonetto dell’immondizia. Avendo a disposizione i soli due centesimi, venne, per acclamazione dei presenti, proclamato vincitore della prova ed accompagnato, gentilmente, alla porta da un addetto alla sicurezza, un ex pugile peso massimo, suonato e con contratto a tempo determinato in quindici riprese, non prima di aver personalmente provveduto, a farsi consegnare scarpe, pantaloni e mutande come da preciso regolamento. Lorenzo, scalzò e nudo dalla cintola in giù, venne gettato in mezzo alla strada dove lo stava aspettando l’Ufficiale Giudiziario per consegnargli, con i suoi più sentiti complimenti, l’Ingiunzione di Sfratto.
-         Eh, vai!- urlò felice abbracciando il messo – Anche la seconda prova è andata!-.
Poi si recò, tra due ali di folla che lo incitavano, al supermercato di fronte dove non ebbe alcuna difficoltà a passare anche la terza. L’unico problema fu l’eccessiva, scrupolosa dose di schiaffoni che ricevette, in luogo della semplice pedata, da un paio di senegalesi, enormi ed incazzati neri, assunti, in qualità di sorveglianti, dall’azienda di distribuzione alimentare quasi scaduta, al fine di dare esemplare lezione ad ogni persona, di ogni età e provenienza, che tentasse di farla franca. Pur ritrovandosi senza denti, Lorenzo riuscì comunque a sorridere soddisfatto, per l’abilità con la quale aveva superato la prova e si diresse, deciso, verso casa. Qui, come sperava, non trovò più nessuno, nemmeno i topi.
Contento all’inverosimile, per la solitudine agognata e finalmente ottenuta, salì in soffitta dove prelevò una valigia di cartone chiusa con dello spago qualche mese prima, in tempi non sospetti, quando nulla sapeva del concorso e delle sue modalità. La aprì e ne controllò il contenuto. C’era la corda e tutto quello di cui aveva bisogno per terminare l’ultima prova e si mise velocemente all’opera. Un attimo prima d’impiccarsi, ad una solida e stagionata trave, posizionò la Polaroid e si fece un autoscatto, da inviare in busta chiusa, certo della bontà d’animo di chi l’avesse trovata, per raccomandata con ricevuta di ritorno, alla Commissione Ministeriale incaricata della selezione.
Dopo alcune settimane gli venne recapitata la risposta.
La Commissione giudicante aveva deciso, all’unanimità, visto l’eccellente risultato conseguito nelle varie prove e l’ottimo aspetto che aveva nella foto, di assegnargli uno dei cinquantamila posti previsti e quindi, da oggi, poteva fregiarsi, con pieno merito e senza alcun rimorso, del titolo di Nuovo Povero. Gli sarebbe stato consegnato, naturalmente, un Attestato, stampato su carta pergamena a caratteri color dell’oro e recante timbro e firma del Ministro in carica, presso il Ministero della Pubblica Distruzione, appena avrebbe avuto la bontà di presentarsi.
Lorenzo, quando ne venne a conoscenza, da voci di cimitero, ne fu contento, pur dispiacendosi di non poterlo, causa gravi motivi di salute, personalmente ritirare.
Appena disponibili avrebbe delegato un paio di vermi.

martedì 7 giugno 2011

Prova costume.

Nives, in una radiosa mattina di inizio estate, guardandosi allo specchio, si vide splendida.
Dopo avere apprezzato le sue generose forme riflesse decise di fare la prova costume.
Aprì l’armadio e tirò il cassetto del mare. Dentro, in balia di una forte mareggiata, c’erano un secchiello con paletta pieno di sabbia dorata bagnata, un paguro bernardo, una ciambella da salvataggio, una maschera da sub, un paio di pinne gialle, due scatolette di tonno, alcune stelle marine, un polpo con, ad ogni tentacolo, una giarrettiera rossa. Del costume nemmeno l’ombra. Eppure era certa di averlo messo proprio lì, l’anno prima, dopo l’ultimo giorno di sole e spiaggia della scorsa estate. Guardò meglio. Niente. Presa da un leggero nervosismo sfilò con forza il cassetto dalle guide e fu, con sua grande sorpresa, che una di queste le parlò, con un marcato accento trentino, indicandole la giusta tecnica da seguire per scalare, in tutta sicurezza, qualsiasi montagna. Poi, intonando all’unisono un noto canto alpino, la invitarono a bere un grappino. Incuriosita, Nives si fece coraggio ed entrò nel cassetto. Appena vi mise piede un’onda gigantesca la travolse facendola ruzzolare all’indietro fino a farla sbattere, con violenza, sul fondo del piano di legno. Sbracciando con forza riuscì a tornare a galla e ad appendersi ad un paio di mutandine di pizzo che galleggiavano sopra di lei. Il polpo, appagato dalla sua eleganza, sonnecchiava, pigramente arrotolato, su di una delle due pinne gialle. Nives riuscì a mettere fuori la testa e prese fiato. Poi si rituffò cercando di raggiungere nuovamente il fondo dove le era parso di aver visto, per un momento, il suo costume da bagno addosso ad una lumaca di mare. Con gli occhi bene aperti che le bruciavano per il sale nuotò con convinzione, in un perfetto stile libero, verso quella macchia di colore viola, firmata YSL, che rivoleva ad ogni costo. Quando la raggiunse si accorse che si trattava di Giancarlo Antognoni, nota mezzala degli anni ottanta della squadra di football di Firenze, la Fiorentina. Questi, vestito con i colori sociali, il viola appunto, della società, la accolse sorridendo, con quel sorriso un po’ ebete che sempre lo aveva contraddistinto anche sui campi di calcio, muovendo il testone dai boccoli d’oro offrendole, con la classe di sempre, un giglio bianchissimo. Nives lo prese con i denti, virò come un’orata e tornò indietro. Mare facendo si trovò dietro ad una fila di tartarughe Carretta Carretta che, per la loro lentezza, intasavano la corsia di marcia regolamentare. Mise la freccia e cominciò la manovra di sorpasso. Dopo poche energiche bracciate si accorse di essere inseguita da una volante di tritoni in divisa che le intimavano di accostare minacciandola con dei pesci martello. Lei decise di non farlo ed aumentò il ritmo di spinta. La volante fece lo stesso tallonandola da vicino, cercando di arpionarle i piedi con la fiocina d’ordinanza. Nives resistette e, nuotando furiosamente, riuscì ad alzare così tanta schiuma che gli inseguitori ne persero le tracce. Stremata giunse sul bordo del cassetto, vi si appoggiò per un attimo e poi, con le forze rimaste, si issò reggendosi al pomello, ne uscì e, velocissimamente, lo rimise sulle guide, ormai completamente ubriache, chiudendolo con una pedata. Poi corse in cucina dove, dalla credenza, prelevò del nastro isolante a prova d’acqua e, con questo, sigillò il cassetto del mare e, per sicurezza, anche l’anta scorrevole dell’armadio da camera.
Finalmente si sentì salva. Stremata si sedette sul bordo del letto e gli occhi si posarono nuovamente sullo specchio. Guardandosi bene constatò di essere un poco ingrassata durante l’inverno. La prova costume non era certo il caso di farla, ne avrebbe avuto sicura delusione. Decise di cambiare.
In fondo, un nuovo costume, magari di un altro colore, ancora, nonostante la crisi economica in cui, come tutti, si dibatteva, lo poteva comperare.

mercoledì 1 giugno 2011

Il venditore di pentole.

Il venditore di pentole uscì presto di casa quella mattina. L’appuntamento, per la dimostrazione, con la signorina Deleuteria era fissato per le nove. Il campionario, una batteria di pentole e coperchi di 99 pezzi, lo aveva caricato, nel bagagliaio della sua station wagon, la sera prima. Il tempo era buono, sole e aria fresca, una giornata ideale per fare affari. Salì in auto e mise in moto. Dopo poco era già invischiato nel traffico caotico della città che si risvegliava suonando clacson e mandandosi a quel paese. Lui il clacson non lo usava mai. Preferiva le corna. Gli piaceva un sacco esporre il braccio sinistro dal finestrino e mostrare la mano con l’indice ed il mignolo alzati a chiunque, uomo o donna che fosse, commettesse scorrettezze, a suo insindacabile giudizio, nella guida. Dopo circa un’ora di lotta infernale con altre centinaia di incazzate persone giunse in via Monti, numero civico 233. Parcheggiò in doppia fila, spense la radio stroncando di netto un furibondo assolo di Jimi Hendrix, aprì la portiera, colpendo in pieno un’anziana signora che tentava di salire sul marciapiede cercando uno spazio tra le auto ferme in strada e che cadde a terra senza un lamento, scese e si accese una sigaretta. Fece un paio di toste tirate, lanciò con violenza il fumo fuori dai polmoni, tossì tre volte individuando, nel contempo, il citofono del palazzo. Si avvicinò a questo ed iniziò a cercare il cognome, Brambilla, su di esso. Non c’era nessuno che rispondesse a quel cognome. Cominciò ad innervosirsi. Ripercorse tutti i sessanta tasti e cognomi con occhi d’assassino. Niente. C’era un Balik, un Fumagalli, un Carugatti, persino un Troia ma di Brambilla nemmeno l’ombra. Smise per un attimo di respirare poi cominciò a prendere a calci il portone. L’anziana, nel frattempo, si era ripresa e, strisciando, gli si avvicinò per protestare la sua indignazione. Appena lei fu vicina, lui la colpì ripetutamente con un coperchio da 28 cm sulla testa e questa stramazzò nuovamente a terra. Poi riprese a colpire furiosamente la porta a vetri dell’ingresso. Una delle vetrate cedette di schianto ed andò in frantumi. Scavalcò, come fosse Rambo, passando attraverso le schegge ed una gli si infilò nei pantaloni, all’altezza del ginocchio destro, tagliandoli di netto. Il sangue prese a fluire copioso macchiando di rosso il pavimento dell’entrata. Attirato dal rumore di vetri rotti, il portiere accorse e gli si piazzò davanti, con le mani tese ed aperte, come se dovesse parare un rigore. Lui lo scartò, con mossa abile degna del miglior Maradona, fintando due volte sulla sinistra per poi sfuggirgli sulla destra . Il portiere gli si gettò tra i piedi tentando di farlo cadere ma lui riuscì a saltarlo e segnò il goal. Due centenari dall’aspetto giovanile, dimostravano solo novantacinque anni, che stavano uscendo dall’ascensore a dorso di pelo dei loro alani, videro l’azione e applaudirono convinti. Nel farlo uno perse la mano di legno, l’altra le unghie finte. Lui le raccolse, le mise sotto alla suola Vibram delle scarpe e le frantumò con rabbia. Poi si gettò su per le scale. Salendo di corsa gli scalini a tre per volta cominciò a suonare al campanello di ogni appartamento, di ogni piano, urlando - Brambilla! Brambilla! Signora Deleuteria Brambilla! Brutta puttana! Avevamo un appuntamento! Dove ti nascondi? Lo so che ci sei. Voglio ammazzarti!-
Quando giunse l’ambulanza chiamata da un inquilino del settimo piano, il Dottor E. Sordi, un cronometrista, cieco dalla nascita, in pensione da qualche anno, lo trovarono appeso all’antenna parabolica condominiale da dove cercava di trasmettere una tele vendita di pentole in acciaio inox, con diritto di recesso, via cavo e a circuito chiuso. Riuscirono a staccarlo con non poca fatica e lo trasportarono d’urgenza in una clinica psichiatrica, dove ancora oggi vive convinto di essere il Diavolo che fa le pentole e, finalmente, ha ottenuto la licenza per fabbricare anche i coperchi..
La signorina Deleuteria Brambilla attende, ancora e con infinita pazienza, la visita del venditore, pulendo, giornalmente e con cura, il pensile dove vorrebbe sistemare le agognate pentole. Lo fa guardando dalla finestra della cucina, del suo piccolo appartamento, da dove si vede benissimo il portone del palazzo di fronte e di cui riesce a leggerne benissimo, nonostante l’età avanzata e la vista non sia più la stessa, il numero civico impresso sulla targhetta affissa al muro.
Quel numero, il 233, lo vede così spesso che qualche volta, quando qualcuno le chiede l’indirizzo di casa, lo confonde con il suo.