sabato 28 maggio 2011

Findus.

Quella sera, per cena, Antonio versò in una padella dell’olio e vi affogò una decina di bastoncini di pesce. Una volta fritti, li adagiò su di un piatto accompagnandoli con del radicchio trevigiano.
Poi, dopo aver visto una replica di una puntata dell’Odissea in TV, con un leggero senso di pesantezza allo stomaco, vestì il pigiama ed andò a dormire.
Dopo un po’si addormentò.
Fece un sogno.
Camminava su di un prato di alghe verdissime pieno di fiori di merluzzo.
L’odore era insopportabile.
Nel mezzo del prato Nettuno aveva aperto un bar.
Dietro al banco c’era lui con il forcone. Lo aiutavano due sirene bellissime, una bionda, l’altra mora, che andavano e venivano portando sulla coda, con incantevole grazia, vassoi stracolmi di tazze e bicchieri, continuamente inseguite da un certo Ulisse, un marinaio, ubriacone e sfaccendato, che non le lasciava in pace un momento, implorandole, insistentemente, di cantargli qualcosa. Alla fine, stanche, le due belle, lo legarono bendato ad un albero e chiesero, ad un coro punk di code di rospo alcolizzate, di intonare una ninnananna. Il navigatore disperso si addormentò come un bambino sognando una troia, un cavallo e alcuni froci. Gli ultimi gli parvero, nel sogno, non precisamente pertinenti ma quel canto, così soave. Decise di passarci sopra.
Sedute su alti sgabelli due balene, con le pinne appoggiate alla barra, conversavano sorseggiando dei cocktails a base di vongole veraci. Poco più in là, un polpo, attaccato ad un tavolo, scriveva un racconto erotico intingendo i tentacoli nella personale riserva d’inchiostro. Un uomo rana si muoveva lentamente nell’acquario, una coppia di orche, elegantemente vestite, parevano interessarsi parecchio a lui. Due squali giocavano a carambola con dei pesci palla, una triglia segnava i punti. Un pesce gatto mischiava abilmente un mazzo di carte leccandosi i baffi mentre l’anguilla si dimenava intorno ad un palo, a ritmo di musica, squamandosi lentamente. Un tricheco la osservava intensamente. Un’orata ed un branzino amoreggiavano in un angolo. In impaziente attesa, davanti al bagno, una fila di lumache di mare.
Fu un’aragosta che si accorse di Antonio e subito diede di chela ad un astice.
Poi lo videro le sirene e corsero ad avvertire Nettuno.
Questi si armò del forcone e gli venne incontro mostrandone i denti.
Un paguro bernardo gli fece lo sgambetto ed Antonio cadde a terra.
Nettuno gli fu addosso in un attimo e lo trapassò con la fiocina.
Il dolore fu lancinante ma nulla in confronto a quello che lo aspettava.
Infilzato, venne velocemente trasportato in cucina dove bolliva un pentolone d’acqua insipida e lì immerso ancora vivo. Sentì la pelle arroventarsi, poi staccarsi dalla carne che bruciava in un modo indescrivibile. Quando fu cotto, lo tagliarono a pezzetti e, dopo averlo mischiato con delle patate lesse, lo condirono con olio, prezzemolo, aglio e un pizzico di sale. Ne fecero una bella insalatina di terra, offrendolo, alla clientela presente, adagiato su di una grande conchiglia.
L’aragosta ne ordinò, ridendo, un paio di porzioni ma il primo a gustarlo, con piena soddisfazione, fu il polpo, anche se, da sempre, detestava le patate con il prezzemolo.
Qui, Antonio, si risvegliò. Naturalmente si rese subito conto di avere sognato. Guardandosi attorno, sudato e con occhi stravolti, riconobbe la stanza da letto.
Si tranquillizzò ed, alzandosi, infilò le ciabatte e si diresse verso il bagno.
Entrando vide un tonno che faceva la doccia, nel lavandino sguazzavano delle acciughe, nel bidet danzavano delle meduse.
Si disse, sorridendo, che stava ancora sognando e non ci diede peso.
Quando si sedette sul water, un pesce siluro schizzò dal fondo e gli sfondò il culo.
In quel preciso momento si rese conto di quanto fossero indigesti i bastoncini Findus.

mercoledì 25 maggio 2011

Bestiario n° 2


La donna mignatta si attaccò all’uomo scarafaggio e gli succhiò il sangue. Nacquero, dopo alcuni mesi, degli esseri lunghi, biondi e con gli occhi azzurri. Belli striscianti ma esangui.
La mamma sanguisuga non se ne preoccupò, presto avrebbero imparato a rifornirsi di quanto necessario alla loro salute. Il padre scarafaggio proprio se ne fotteva dei suoi figlioli, anzi li avrebbe mangiati volentieri se quella rompipalle di sua moglie non lo avesse minacciato di succhiarlo fino alla morte.
La vita della simpatica famigliola proseguiva tranquillamente. I ragazzi crescevano attorniati da parenti ed amici attenti. Un paio di topi di fogna, in particolare, avevano una predilezione per uno di loro e non vedevano l’ora che crescesse un po’ per violentarlo. Gli piacevano parecchio quei boccoli biondi appiccicati, sul corpo sinuoso, peloso e viscido, che sfrontatamente metteva in mostra ogni volta che passava davanti alla loro tana. Quando i loro occhi famelici lo vedevano strisciare, strusciandosi provocatoriamente sul pavimento, fantasticavano di possederlo e spesso gli offrivano, per attiralo in trappola, i pezzi di formaggio che quotidianamente prelevavano, senza alcuna difficoltà, da altre trappole, disseminate qua e là per tutta la casa da qualcuno che, certamente, non gli voleva bene. Il piccolo non cedeva alle lusinghe ed, anzi, avendone capito le intenzioni maligne, si divertiva a mostrare loro il culo.
Vicina a loro abitava, in una vecchia scarpa da tennis della Superga, una coppia senza prole formata da una mantide religiosa ed un grillo. Il secondo, per niente saggio, dispensava consigli a tutti e tutti sapevano che diceva solo cazzate e non lo ascoltavano mai, la prima, una vecchia entreneuse in odore di santità, recitava salmi della Bibbia in continuazione. I topi, quando non ne potevano più di sentirli blaterare, mettevano sul piatto un pezzo di Bob Marley e si facevano un cannone.
Il gatto sornione sonnecchiava vigile sul tappeto persiano tutto il giorno. La padrona, per assecondarlo in questa sua funzione, gli aveva comperato una divisa da agente municipale con tanto di fischietto e paletta. Lui l’aveva presa piuttosto seriamente e dirigeva il traffico, a volte eccessivamente caotico, delle varie bestiole che popolavano l’appartamento. Multava, spesso, le zanzare, quelle con  una tigre nel motore, che scorrazzavano indisciplinate, senza rispettare le precedenze ed infischiandosene dei vari insetticidi, da una parete all’altra, zigzagando e ronzando in un modo insopportabile.
Il verme faceva la spia e gli segnalava i vari misfatti. Alcune pigre galline, che razzolavano nell’aia senza produrre mai uova, se ne accorsero e lo beccarono a morte.
Su tutti vegliava lo scorpione. Era stato, in un passato recente, il politico di riferimento per l’intera comunità. Finito nei guai per aver dimenticato che il sasso, sotto il quale viveva, gli era stato regalato, a sua insaputa, da un serpente a sonagli, per riciclaggio e per aver accettato molti altri inaspettati doni, tra i quali un frullatore, di cui, disonestamente, non sapeva che farsene, si era prudentemente ritirato sotto la sua pietra, come sempre riscaldata dal sole, ad aspettare tempi migliori. Purtroppo si trovò a passare di lì un elefante africano laureato in Giurisprudenza che aveva perduto la toga e la strada e, stanco da tanto inutile girovagare, si sedette proprio su quella pietra. Lo scorpione, accortosi dell’imminente tragedia, riuscì, con un ultimo urlo, ad invocare il legittimo impedimento ma non ci fu nulla da fare. La seduta andò avanti ed il peso della fatalità lo ridusse ad una poltiglia.
La comunità delle bestie inquietanti se ne fece presto una ragione. Nessuna lo pianse. Il fatto divenne una storiella satirica. Rapidamente passò di bocca in bocca ed ebbe un successo incredibile.
In fondo anche gli esseri viventi meno fortunati, ogni tanto, hanno il diritto di ridere. 

martedì 17 maggio 2011

Carta straccia.

Lo scrittore fallito aprì un negozio di carta straccia in un sobborgo di New York e fece fortuna.
I fogli sporchi d’inchiostro, pieni di parole, punteggiatura e capoversi inutili, andarono a ruba.
Nessuno riusciva a capire il motivo di tanta passione, tantomeno l’uso che ne veniva fatto ma la gente pareva impazzita, sembrava non poterne più fare a meno.
Dopo due anni di intensa attività gli vennero dedicate le copertine di Capital e Men & Money.
Divenne così famoso che un importante editore lo implorò di pubblicare i suoi scritti. Lui rifiutò.
Non che non volesse più scrivere, anzi produceva tantissimo, in continuazione, ma esclusivamente per far fronte alle richieste sempre più pressanti della cannibalesca clientela del negozio che, nel frattempo, era stato trasferito nella 5th Avenue accanto all’atelier di un noto stilista italiano.
Questi, notando il voluminoso giro d’affari, ebbe l’idea di provare a fabbricare vestiti d’alta moda utilizzando chili di risme usate del vicino.
L’ex scrittore accettò.
La sfilata si tenne sei mesi dopo al MoMa ed ebbe un incredibile successo.
Tutti i giornali del mondo ne parlarono, le televisioni fecero a gara per intervistare i due.
Lo stilista si concesse pavoneggiandosi in un completo appena cucito fatto con i soli incipit dei vari romanzi cominciati e mai finiti dall’ex scrittore, questi si dichiarò contento ma turbato.
Fu poco partecipe e la giornalista della CNN inviata ci rimase male.
Si giustificò dicendo che le parole le aveva ormai consumate tutte per diventare ricco e non aveva più molto da dire.
Il negozio divenne rapidamente un’industria e fu quotato in borsa. Il titolo andò benissimo e restò in crescita per tutto l’anno successivo. Lo stilista divenne uno dei più importanti azionisti e si trascinò dietro facoltosi investitori di tutto il pianeta.
Tutto andava a gonfie vele, l’entusiasmo alle stelle.
Lo scrittore non pensava più a scrivere libri, preferiva compilare assegni.
Poi, un giorno, sorprendendo tutti, cedette la sua quota maggioritaria della ormai faraonica multinazionale, acquistò un’isola caraibica e vi si ritirò.
Sulla spiaggia dorata fece costruire una capanna di legno,il tetto fatto con foglie di banano.
Ci mise un tavolo, una sedia sgangherata e la sua vecchia Lettera 22.
Ogni mattina, dopo aver fatto un’abbondante colazione servitagli da alcune donnine poco vestite, lasciava la mega villa sulla collina per scendere alla capanna portandosi dietro un plico di fogli bianchi A4. Appena giunto ne infilava uno nel rullo e aspettava un’idea.
Non arrivava mai e, ogni sera, tornava alla reggia deluso.
Un giorno, uno dei tanti, gli venne l’ispirazione.
Riempì di getto centinaia di pagine e, quando ebbe finito, si accorse di aver dato vita al più bel romanzo che fosse mai stato scritto.
Ne ebbe paura e lo gettò in mare.
Il giorno dopo fece distruggere la capanna e seppellire la Lettera 22.
Nel frattempo le maggiori testate del pianeta s’interessarono, quasi ogni giorno, della strepitosa ascesa di quella piccola idea nata dalla disperazione e dallo sconforto.
L’ideatore di quella incredibile fortuna venne candidato, insieme ad altri, al Premio Nobel per l’Economia.
Naturalmente la carta straccia vinse, stracciandoli tutti.

sabato 14 maggio 2011

Mezzo dado.


“Vendo secretaire tardo settecento finemente cesellato da tarli.”
Marco restò colpito dall’annuncio.
Un secondo dopo compose il numero di telefono del venditore.
Questi gli confermò la possibilità di acquistare l’oggetto ma precisò che “tarli” non era il cognome di un noto ebanista, bensì si trattava di una piuttosto nutrita e famelica famigliola delle note bestioline, terrore di ogni antiquario.
L’affare si fece lo stesso.
In cambio del pezzo antico, Marco propose al venditore la moglie, una donna sui cinquant’anni di discreto aspetto ma dotata di una folta peluria che le ricopriva quasi completamente il viso. L’uomo dell’annuncio decise di accettare ma volle anche una confezione di lamette, una ciotola con del sapone e un pennello professionale da barbiere.
Marco, stremato dall’estenuante trattativa, acconsentì e disse alla moglie di accomodarsi in una grossa scatola, non prima di avere messo nella borsetta il kit da barba.
Lei non fece una piega e si sedette silenziosamente nell’imballaggio.
Marco prima lo chiuse accuratamente con dello scotch da pacchi, poi vi appose un sigillo in ceralacca rossa e, dopo averlo caricato nel portabagagli dell’auto, lo portò allo sportello spedizioni ingombranti dell’Ufficio Postale più vicino. Qui compilò l’apposito modulo d’invio, spese a carico del destinatario, e lo affidò ad un solerte impiegato appena svegliatosi dal solito pisolino di metà mattina. Poi fece dietrofront e tornò a casa.
Per cena si preparò un brodino con mezzo dado vegetale. Poi andò a dormire.
Fece tre sogni tranquilli.
Nel primo sognò di essere il pilota di un cacciabombardiere incaricato di sganciare una bomba atomica sulla casa della suocera.
Nel secondo era un serial killer che massacrava parenti.
Nel terzo un giocatore d’azzardo prestato alla Cirulla.
La mattina dopo si svegliò contento e per colazione si fece un brodino vegetale con l’altra metà del dado. Poi, visto che del secretaire nella casella di posta non v’era traccia, tornò a letto e si riaddormentò.
Fece un solo lungo sogno che durò poco.
Quando si risvegliò andò in cucina per farsi un brodino ma i dadi erano finiti.
Non si perse d’animo. Si tolse una ciabatta e la immerse in una pentola piena d’acqua salata. Per rendere il tutto più saporito ci mise anche una cipolla estirpata da un piede.
La minestra si rivelò così buona da fargli decidere di non usare mai più dadi da brodo.
Fuori il tempo era buono, grandinava pesantemente.
Sull’asfalto del giardino sottocasa, tra i fiori di plastica, alcuni passanti con la testa fracassata da chicchi grandi come palle da bowling.
Un signore, trapassato da un’appuntita stalattite, colto mentre si accingeva a raccogliere la cacca del cane.
Il fido animale, superstite, seduto su una panchina, fumava pazientemente la pipa.
Considerando la bella giornata, Marco decise di uscire a fare tre passi. Ne fece due e rientrò.
Passò dalla cucina per farsi un po’ di brodo ma scivolò su una buccia di banana.
Cadde rovinosamente restando in piedi.
Da una finestra del palazzo di fronte lo vide il direttore di un noto circo che volle assumerlo immediatamente per inserirlo nei numeri acrobatici. Nel tentativo di farsi notare dal dirimpettaio salì sul cornicione agitando le braccia in modo esagerato.
L’altro non se ne accorse, nemmeno quando passò rapidamente urlando, con il contratto in mano, proprio davanti ai suoi occhi.
Comunque il mondo andò avanti ma nessuno se ne rese conto.
Marco passò il resto della giornata in un terribile stato d’ansia in attesa del desiderato secretaire.
Per ammazzare il tempo, nel pomeriggio, rivide una puntata registrata di Chi l’ha visto?
Più tardi si addormentò davanti ad una replica di Porta a Porta.
Fu una notte agitata sponsorizzata dalla Knorr.
Il giorno dopo ricevette un telegramma dal venditore.
L’uomo scriveva che era dispiaciuto ma all’ultimo momento aveva deciso di rinunciare all’affare.
Gli restituiva la moglie, ancora intonsa e, quindi, non rasata.
Preferiva tenersi i tarli.
Disturbavano di meno.

martedì 10 maggio 2011

Una gita sul Po.

“Dai! Ammazziamoli tutti!” urlò il capo con l’ictus.
Una folla di convinti padani, strafatti di gorgonzola, sbucò festante, da un enorme paiolo di polenta taragna, coperta soltanto da striminziti tanga verdini e si gettò nel Po.
Alcuni inciamparono ostacolati nella corsa al fiume sacro dalle improvvide erezioni di chi ce l’aveva duro.
Il tuffo di gruppo spaventò le poche trote presenti.
Un luccio di grosse dimensioni, in un primo momento, gradì parecchio un piccolo pesce verde che gli finì diritto in bocca, subito dopo lo sputò schifato a causa del retrogusto di cassola che aveva.
Gli uomini e donne verdi divennero, per la temperatura prossima allo zero dell’acqua, cianotici, alcuni piuttosto blu. Incitati dal condottiero in carrozzina nuotarono poco, bevvero molto, affogarono presto.
Erano partiti per sterminare tutti quelli che non erano del loro stesso colore. 
Volevano massacrare i rossi, i gialli, i neri, i marron, i bianchi, quelli a stelle a strisce, i rosa, i caffèlatte, i beige con la varicella. 
In nome del federalismo, delle tasse mai pagate, dello sfruttamento degli immigrati, dello “Strano ma vero” e lo “Sapevi che?”, mitiche rubriche della Settimana Enigmistica e basi, ma anche cateti ed ipotenuse, fondamentali del sapere leghista. A molti sarebbe piaciuto anche il Quesito di Susy se non fosse stato per quel corvaccio nero.
Per dimostrare di essere veramente dei duri con i calli in testa si tuffarono controcorrente cercando d’imitare i salmoni ma questi, non ancora affumicati, si fecero quattro risate.
Il primo della fila, uno travestito, si chiamava Aldo ma per tutti era la Roberta, da Alberto da Giussano, portava fieramente una bandiera bianca rossocrociata. L’armatura gli fu fatale.
La bandiera finì in un campo di nomadi che nulla sapevano del suo significato ma la usarono volentieri come tovaglia.
Gli altri, eroici, valorosi, nordici, analfabeti lo seguirono a ruota. Purtroppo molti, quasi tutti, l’avevano quadra e sbagliarono strada. Invece che finire controcorrente, al fine di giungere alla vena natia del sacro Po dove bere e depurarsi prima di compiere la missione finale, si infilarono direttamente tra mulinelli incazzati e vorticose discendenti correnti che li spinsero giù trascinandoli via nel tempo di un amen.
Sulla riva del fiume, sopra ad una rupe, rimase l’uomo con l’ictus che, pur semiparalizzato, continuava ad urlare incitando le sue truppe a non desistere. Sfortunatamente passava di lì l’ultimo discendente della gloriosa, anche se un poco crudele, gente di Sparta che lo vide e, memore dei bei tempi andati, lo spinse di sotto.
Di lui, dei suoi seguaci, non si seppe più nulla.
Inghiottiti dalle acque che tanto avevano amato, senza sapere che queste non erano d’accordo.

lunedì 9 maggio 2011

Bestiario n°1.

Il gatto siamese si mosse lentamente verso la libreria.
Con un balzo salì sul terzo ripiano per consultare, voce miagolare, l’Enciclopedia Treccani.
Questa, appena lo vide, cominciò furiosamente ad abbaiare.
La mosca atterrò sulla torta di mele e prese a scavare.
Il bambino la vide e ne fece un sol boccone.
Il bolo di mosca, farina, zucchero e mela si incastrò nella piccola, vorace gola impedendogli di respirare. Il volto divenne viola, la mamma si spaventò, il padre, come ogni sera, uscì a puttane.
Il geco ruotò la lingua e si leccò il culo. Il topo di fogna disapprovò.
La zanzara rispose all’appello e si presentò all’emobanca per donare il sangue.
Il prelievo fu piuttosto complicato e durò parecchio.
Alla fine un dissanguato la ringraziò e le offrì una grossa bistecca; poco cotta, grazie.
Il coccodrillo versò tutte le sue lacrime, ma tutti si accorsero che erano solo lacrime di coccodrillo. Lo scuoiarono senza pietà trasformandolo in una dozzina di graziose borsette di varia grandezza.
Una signora di belle maniere le acquistò tutte.
Quella più grande la regalò alla sua migliore amica che, casualmente, era anche la migliore amica del marito.
Venne ritrovata cadavere qualche giorno dopo con la testa infilata nella borsa che, stranamente, aveva al posto della lampo una bella fila di denti lunghi ed aguzzi.
Il cammello si innamorò di un dromedario. La famiglia non ne volle sapere. Fuggirono nel deserto. I tartari li accolsero benevolmente ma pretesero, in cambio, che si recassero dal dentista per una seduta d’igiene dentale.
Il pesce palla giocò un combattuto derby di football. Finì più volte in fondo alla rete.
La mantide religiosa si scoprì improvvisamente atea. Ancora oggi non riesce a farsene una ragione.
Il verme solitario, invitato ad una festa in maschera, diventò amico di molte tenie travestite da intestino.
Da allora non fu più solo ma dimagrì in modo spaventoso.
Il cavallo maremmano scivolò nel porcile.
Scrollandosi la melma di dosso imprecò: “ Maremma maiala!”.
La scrofa rosa se ne risentì.
Il picchio rosso picchiò il becco per ore alla porta, finemente decorata, di casa del tasso.
Aprì la tassa e gli consegnò la cartella.
Il pipistrello, travestito da Batman, andò a cena da Superman. La kriptonite fritta si rivelò piuttosto indigesta.
Il vecchio domatore andò in pensione, seppellì la frusta e chiuse il circo.
Gli elefanti presero il volo, i leoni tornarono alla Savana, le tigri prenotarono un tavolo in una pizzeria, le pantere innestarono la sirena e partirono sgommando.
Solo la pulce continuò a coltivare l’arte del saltimbanco.

sabato 7 maggio 2011

La pelle del serpente.

La pelle del serpente la teneva, da sempre, sotto al cuscino, sul letto il fucile avvolto in una di pecora.
Quel giorno, fresca mattina di primavera, Gavino salì presto all’ovile.
Il gregge era là, tranquillo, che aspettava.
Quando giunse, il sole ancora non riscaldava la pietra, aprì subito il piccolo cancelletto e fece uscire quel mucchio di lana morbida, che mai una maglia Benetton avrebbe conosciuto.
Le pecore presero, come d’abitudine, la via del pascolo e, dopo averle seguite con lo sguardo per un poco, si rimise in cammino e, tornando indietro, cambiò strada.
Questa non portava al paese arroccato sull’Altopiano del Golfo ma, dopo una ripida, lunga discesa, passando pietraie e tratti di bosco, giungeva a Cala Goloritzè, un angolo di mare molto prossimo al paradiso.
Ci voleva una buona ora di svelto passo per arrivarci ma ne valeva la pena.
Gavino, pastore figlio di pastori, era un isolano di montagna.
Il mare lo aveva quasi sempre visto dall’alto, finché, un giorno, Lucia  lo aveva convinto. Scesero insieme, per la prima volta, quella via disegnata tra alberi secolari, sassi coperti di muschio, antichi rifugi per pecore e pastori scavati sotto enormi radici o ricavati in una grotta. Questi facevano anche un po’ paura, lì, forse, qualcuno era stato nascosto, tenuto prigioniero dopo esser stato rapito, in attesa del riscatto. Si sentiva, passando vicino, l’odore della sofferenza, della speranza, della solitudine.
Lucia camminava veloce, lasciandosi a volte scivolare sulla ghiaia, Gavino cercava di starle dietro. Ogni tanto, lei, prendeva un leggero vantaggio, allora si voltava e sorridendo, che belli quei denti bianchissimi, quelle labbra dolcissime, lo incitava a raggiungerla.
Ad un certo punto la strada si fece ancor più ripida, incuneandosi, nascondendosi quasi, sotto agli alberi e, d’improvviso, uscendo da una galleria di ombrose fronde, magicamente sbucò su una cala fantastica.
La spiaggia era rosa, contornata da pietre bianchissime, l’acqua di un colore e trasparenza incredibile.
A quell’incanto rimasero senza fiato.
Poi si spogliarono, si presero per mano e si lasciarono cadere in acqua.
Fu il bagno di mare più bello della sua vita, Gavino non lo scordò mai.
Così, quel giorno, dopo aver liberato le pecore, decise di tornarci ancora una volta.
Camminò velocissimo, corse quasi e quando finalmente arrivò si sentì, come allora, mancare il fiato.  Si fermò un attimo a guardare con attenzione, come a volerlo fotografare quel posto. Poi si tolse i vestiti e, nudo, si tuffò nel mare limpido.
Nuotò piano, a lungo, poi, lasciandosi trasportare da piccole onde, tornò sulla spiaggia.
Questa volta da solo, Lucia chissà dov’era.
Se n’era andata tre anni prima, per studiare in un’Università del Continente, qualche giorno dopo quella corsa a Cala Goloritzè, dove Gavino gustò, per la prima volta, il mare e l’amore.
Ora toccava a lui andare, lasciare quei posti, quella terra circondata dal mare.
Doveva andare perché lì non si poteva più stare, lì non c’era futuro, niente lavoro.
L’Isola moriva nonostante fosse uno dei posti più belli del mondo.
Lo aveva sentito dire da qualcuno in un bar di Baunei e ne era rimasto impressionato.
Non voleva credere, non riusciva a credere.
Poi ne sentì un altro e un altro ancora e si convinse.
In fondo anche Lucia se ne era andata in Continente e non era più tornata.
Forse era giusto così, quello il loro destino.
Le pecore non bastavano più per vivere, il formaggio era sempre buonissimo ma nessuno lo voleva.
Questo pensava mentre, ancora bagnato e coperto di sale, risaliva il sentiero.
Ci mise un niente, gli sembrò di scappare.
Quando fu in cima si voltò un’ultima volta per guardare.
I suoi occhi presero il volo.
Quello che vide era troppo bello, unico, meraviglioso, irrinunciabile.
Era il suo mondo, la sua terra, la sua vita.
Decise di sedersi, di restare.
Decise di lottare.

venerdì 6 maggio 2011

Quelli che guardano il mare.



Quelli che guardano il mare stanno al fresco di una grande palma, siedono intorno ad un tavolo, giocano a carte. Sulla pelle hanno mille rughe disegnate dal sale, negli occhi l' infinito blu dell’orizzonte.
Quelli che guardano il mare annusano l’aria come cani in cerca dell’osso.
Fanno scivolare le ore sull’onda, abbandonano il tempo alle correnti, ormeggiano gli anni a bitte di sogno.
Quelli che guardano il mare sanno scherzare, ridere, parlare. Leggono i giornali senza farsi condizionare.
Quelli che guardano il mare vogliono nient’altro guardare, non hanno fretta, sanno aspettare.
Pensano, riflettono, amano.
Quelli che guardano il mare conoscono la musica, cantano, ballano. Hanno ritmo, tocco, orecchio.
Suonano strumenti incredibili, conchiglie, sassi, stelle e cavallucci marini. Uno i bonghi, poco poco, piano piano.
Quelli che guardano il mare sanno cosa sia la pace, non conoscono l’odio, rifuggono la guerra.
Non hanno fucili, solo canne. Alcune sono da pesca, altre no.
Girano disarmati, senza speroni, senza bandiere.
Anarchici, liberi, presenti.
Quelli che guardano il mare potrebbero insegnare a molti a guardare ma sanno benissimo che non lo si deve fare.
Quello che puoi fare, se vuoi, è sederti, in silenzio, vicino a loro, chiudere gli occhi, lasciarti andare.
C’è sempre, nei pressi, qualche sedia libera per chi la vuole occupare, un posto in prima fila per chi, il mare, vuol cominciare, veramente, a guardare. 

giovedì 5 maggio 2011

IL PIATTO DEL GIORNO: Il ladro di caschi.

 Sanremo: arrestato questa mattina nel centro storico il cosiddetto 'ladro di caschi'.

Nella nostra piccola città," bastardo posto" per dirla con Guccini, è stato catturato l'Arsenio Lupin dei caschi.
Lo hanno sorpreso mentre si stava arrampicando sul banano più alto, di un giardino incolto, nel tentativo di portarsi a casa l'ennesimo casco. L'uomo, un simpatico brizzolato patito delle banane, al momento dell'arresto, ha così commentato: Non riesco a farne a meno. Per me, le banane, sono come una droga. Una o due non mi bastano, per sentirmi bene, ogni giorno, devo farmene almeno un casco.
Condotto ammanettato in questura, tra gli applausi di una folla di scimmie, da lungo tempo costrette a fare salti mortali per reperire il frutto di loro maggior gradimento a causa dell'attività frenetica del predatore di caschi, l'uomo, una volta in cella, ha chiesto, supplicando, che almeno gli fosse somministrato, per via endovenosa, un frappè a base dell'esotico frutto. A parziale discolpa, dichiarandosi ecologista e ladro gentiluomo, ha precisato di non aver mai gettato per strada alcuna buccia. Gli è stato concesso ed ora dorme tranquillo come un piccolo Tarzan.
La notizia del fermo ha fatto, in un attimo, il giro dell'intera comunità. Nei bar, nei ritrovi, nei circoli più esclusivi, persino negli alberghi a ore pur avendo, per ovvi motivi, una certa fretta, non si parla d'altro.
L'incubo finalmente è finito, giustizia è stata fatta senza neppure dover ricorrere a delle bombe intelligenti.
Il Consiglio Comunale, compattamente appeso a delle liane, gustando una colossale banana-split, si è dichiarato soddisfatto.
Solo il re dei gorilla, intervistato a quattro zampe da un noto giornalista della zona, ha dichiarato di essere per nulla interessato al fatto.
A lui, da tempo, piace esclusivamente il Crodino.

mercoledì 4 maggio 2011

La puttana guardava le nuvole.

Stilo diede un calcio alle sue notti, disegnò un graffio nel cielo e disse amen. Salì su di una barca a vela e la lasciò scivolare sulle onde. Si arrese al silenzio consegnandosi al vento.
Daria bevve l’ultimo bicchiere di vino mischiato a qualche pastiglia di troppo. Si addormentò sognando un ultimo sogno.
Maurizio curava altri curando se stesso. Non riuscì mai ha capire chi fosse più malato. Piantò un chiodo in una trave e vi appese i suoi dubbi.
Giuseppe dondolò tre giorni tra gli ulivi. Verdissime foglie gli tennero compagnia come mai avrebbe potuto immaginare.
L’angelo li perdonò tutti e porse loro la mano.
Pino guardò con terrore le sue vene, prese una siringa e la piantò in quella più grande. La corrente nel fiume, quella volta, fu troppo forte.
Gina rubò la pistola d’ordinanza al padre militare disteso sul letto. Lui continuò a dormire, lei no.
Alfredo si fece strappare la macchia dal viso. Guardandosi allo specchio si vide diverso, troppo. Le violette nel suo campo aspettarono a lungo l’acqua.
Mara tirò la lampo dei jeans e, senza biglietto, corse incontro al treno. Al bar della stazione uno mangiava un panino, un altro beveva un caffè leggendo il giornale. La vecchia puttana guardava le nuvole. La campanella suonò, il locomotore si fermò, le porte si aprirono, nessuno salì.
Un fantasma scese, posò i bagagli, si accese una sigaretta.
Aldo si definì infinitamente stanco, mise sul cappello un fiore delicato prima d’imparare a volare.
Caterina non fu mai cattiva con nessuno. Solo di se stessa non ebbe pietà.
Tino disse ciao al mondo, il mondo non lo sentì.
Giovanna fu l’ultima, quel giorno, a pagare il conto. Anche per lei, al botteghino, niente sconto.
Qualcuno, a fine sera, chiuse la cassa ed il teatro.
Poi spense la luce.