sabato 30 aprile 2011

Amnesia finale.

Si deve incominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli di ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento. Senza di essa non siamo nulla.

Paola decise di aspettare l’amnesia finale, quella che avrebbe cancellato un’intera vita, come era successo a sua madre qualche tempo prima. Lo fece una mattina quando, alzandosi dal letto ed avvicinandosi alla finestra per aprirla, non riconobbe quello che apparve ai suoi occhi. Neppure si chiese cosa le stesse capitando, ne prese semplicemente atto.
Giovanni, come ogni bella giornata di sole, si accomodò sulla sedia a dondolo, in mezzo ai gerani, sulla terrazza. Aprì il giornale e cominciò a leggere. Poi si addormentò. Le parole scritte entrarono nella sua testa dalla porta di servizio e lui non ricordava di averne mai avuta una.
Anna cadde e si ruppe il femore. Nemmeno del dolore ebbe ricordo.
Mario uscì di casa vestito leggero, l’inverno, fuori, rise di lui.
Cesarina vagava per le strade del paese senza riconoscere quelli che incontrava, cercava qualcuno. Nessuno si fece trovare.
Alla fonderia ci fu un incendio terribile. Morirono in sette, uno urlando che non voleva morire.
Nessuno di loro aveva perso la memoria, tutti, la vita. I giornali e le televisioni ne parlarono per un po’. Poi passarono al calcio e all’Isola dei Famosi. In molti furono contenti di dimenticare.
Un ragazzo di nome Pancho, condannato a morte, insieme ad altri otto, per aver combattuto per la libertà, prima di essere appeso con una corda, con le mani legate dietro la schiena con del filo spinato, ad un albero, riuscì a sputare in faccia al suo aguzzino. Un suo compagno, pestato a sangue ma giudicato troppo giovane per venire ucciso, fu costretto ad assistere a quella barbarie. Ancora oggi lotta per non dimenticare, affinché Pancho non sia dimenticato.
Gino piantò un seme di girasole in un campo abbandonato. Il fiore venne bello diritto, alto. Crebbe così tanto da arrivare a toccare il cielo. Gino ci attaccò i suoi ricordi, certo che sarebbero diventati nuvole.
Un trapezista volò senza rete mancando la presa. La donna cannone pianse, il cassiere del circo aumentò il prezzo del biglietto.
Un noto imprenditore, diventato uomo politico, accusato di mille nefandezze si difese trincerandosi dietro dei non ricordo. Alla fine venne assolto per perdita della memoria. Collettiva.
Il sole dimenticò di accendersi e la terra sbagliò asse di rotazione. Ci fu molta confusione.
La memoria dei popoli andò a farsi benedire, persa nell’affanno dell’oggi.
Un uomo, uno solo, la conservò per tutti.
Fu lui che salvò il mondo.

giovedì 28 aprile 2011

L'isola dei sogni.

Quel giorno, come d’abitudine, Malik si alzò prestissimo. Non era ancora spuntato il sole che lui stava già sotto la doccia. Mentre l’acqua rimbalzava sulla pelle risvegliandogli il corpo pensava a quanto era stato fortunato. Ormai erano passati sette anni da quando, dopo una traversata tremenda, era sbarcato sull’isola dei suoi sogni. Certo, in un primo momento, gli era venuto il ragionevole dubbio di avere sbagliato. L’accoglienza non era stata delle migliori, anche se alcuni isolani gli avevano subito sorriso. Ad attenderlo c’era la polizia italiana ed altri uomini in divisa con le mani vestite di lattice bianco. Questo particolare gli diede fastidio. Non era malato, non portava epidemie ma, alla fine, pensò che non fosse il caso di fare il difficile. Quello che contava era essere arrivato in quel luogo, in quel Paese dove avrebbe, sicuramente, ricominciato a vivere, con fatica, certo, ma, finalmente, senza la paura di morire.
Una volta fuori dalla doccia e dai pensieri andò in cucina a farsi il caffè, un rito mattutino che lo faceva sentire parte integrante di quella terra che sì, alla fine, gli aveva dato una possibilità ma non un permesso di soggiorno definitivo, ne diritto di cittadinanza, rifiutandosi, per pigrizia, per paura, di riconoscerlo come figlio suo.
Tra poco sarebbe uscito di casa, dopo avere baciato la moglie che ancora dormiva, per recarsi al lavoro. Da tre anni era dipendente, non in regola si capisce, di una ditta di costruzioni. La paga non era il massimo ma bastava a permettergli una vita dignitosa. Ogni mattina, al cantiere, i compagni lo prendevano in giro per il colore della pelle. Lo facevano scherzando, non erano cattivi. Ci aveva fatto il callo aggiungendolo a quelli delle mani che erano forti, volitive. Con quelle mani stava creando, poco alla volta, il suo futuro, sperando, un giorno, di poterle usare non più per impastare cemento, posare mattoni, sollevare pesi ma per disegnare progetti di edifici, ponti, strade. Era laureato in Ingegneria ma qui quel suo titolo non era ancora riconosciuto, non valeva niente. Così, per il momento, si era adattato in attesa che qualcosa cambiasse.
La giornata di lavoro cominciò pesante come al solito. Prima dovette scaricare un camion di sacchi da cinquanta chili di cemento, poi passò all’impastatrice dove lavorò duro per un paio d’ore, infine gli dissero di salire sull’impalcatura, al piano più alto, per staccare, dalla carrucola che le issava, carriole piene di malta e consegnarle, una ad una, ai muratori che lassù erano all’opera. Lui, da bambino, aveva timore delle altezze, soffriva di vertigine. Qui aveva imparato a stare in equilibrio, come un trapezista sulla corda, ed il vuoto più non lo spaventava.
Venne l’ora di pausa per il pranzo, Malik sedette con gli altri su di una trave sospesa nel cielo.
Che bello che è il mondo visto da quassù, pensò.
Poi fece colazione. Karima, sua moglie, la sera prima gli aveva infilato nello zainetto una bella frittata di patate e cipolle, del pane, un pezzo di formaggio, un paio di mele, una bottiglia d’acqua ed un piccolo termos pieno di caffè. Gustò il tutto come fossero le migliori pietanze, preparate da un famoso chef, servite in un grande ristorante. Pensò a lei e si disse che, prima o poi, l’avrebbe portata in un posto del genere, con i tavoli coperti da fresche tovaglie di lino, posate per ogni piatto, calici di fine cristallo, una rosa rossa a centrotavola. Karima lo meritava, per i sacrifici che sopportava, per quanto lo amava.
Durante la pausa il capomastro gli prestò il giornale. Lui ne sfogliò rapidamente le pagine, il tempo non era molto, fermandosi in quelle di cronaca. L’articolo che lo attirò parlava dell’imminente concerto del Primo Maggio di Piazza San Giovanni a Roma. Sotto al titolo un lungo elenco di città dove si sarebbero svolte manifestazioni simili per festeggiare la Festa dei Lavoratori. Di spalla un fondo di un noto editorialista parlava della sicurezza sul lavoro. Di lato un riquadro con delle statistiche sugli infortuni, sulle morti bianche, sui caduti del lavoro. Il numero, sebbene in leggero, costante calo rispetto agli anni precedenti, ancora impressionante: nell’anno in corso 980 persone, uomini e donne, avevano perso la vita mentre cercavano di portare a casa un pezzo di pane.
Un brivido gli corse lungo tutta la schiena, poi la sirena suonò.
Alzandosi, per riprendere il lavoro, ripiegò ordinatamente il giornale e lo restituì, ringraziando, a chi lo aveva prestato.
Poi alzò gli occhi al cielo per rivolgere una preghiera al suo Dio.
Si perse in quell’azzurro popolato da soffici, bianchissime, leggere nuvole.
Un attimo dopo le vide allontanarsi troppo velocemente.
I suoi occhi continuavano a fissarle ma loro apparivano sempre più distanti, disperatamente lontane.
Rapidamente, come in un film impazzito, rivide angoli della sua Terra, ne riconobbe gli odori, i colori. Il viso severo del padre, il sorriso della madre, i giochi di bambino con i fratelli. Lo sguardo dolce di Karima, quello pieno di gioia dei suoi due figli.
Poi vide l’isola dei suoi sogni farsi sempre più vicina. 

mercoledì 27 aprile 2011

La città degli idioti.

Le mummie sono sempre lì, nei soliti bar, con le  bende sugli occhi ed i bicchieri in mano .
A guardar bene qualcuna manca, saranno quelle scadute?
La città, dai fiori dimenticati, in mano ai soliti padroni, mani lunghe, d'oro i pantaloni.
Il venditore di automobili guida in centro, contromano, scorreggiando in mezzo all'isola pedonale, investendo passanti per niente offesi da tanta maleducazione. Qualcuno applaude, c'è chi gode.
Il mare fa schifo, i bagnanti di più. No, non è vero: i bagnanti fan schifo, il mare di più.
Il matto del paese dirige l'Azienda dell'Acqua. Pretende il pizzo da ogni pazzo che passa. Incassa parecchio, tutti lo amano.
Il giornalista venduto,  mai ha pagato, scarta in sella ad una moto. Evita il traffico sporcando parole.
Il giocatore d'azzardo oggi siede al computer. Gioca da solo e riesce egualmente a perdere.
I commercianti bruciano le loro licenze. Molti vanno più in là dando fuoco alle botteghe. Le assicurazioni pagano, il banco vince.
I cinesi, anche da queste parti, seminano il terrore. Il giallo, si sa, nessuno mai lo rispetta. Il rosso, poi, proprio non esiste, qui il verde è fisso.
Le puttane di ogni colore lavorano molto, i puttanieri si sprecano.
Le rotonde impazzano, il girotondo non va più nemmeno tra i bambini.
La corsa ciclistica si decide da sempre in volata, la ripida discesa non basta mai.
I cantanti, ormai, qui vengono a svernare, qualcuno c'è morto, un po' di tempo fa, ma non per l'età.
Il centro storico aspetta da secoli di esser riconosciuto. Difficile che avvenga prima che crolli.
La nebbia agli irti colli sale..Non qua, dove splende sempre un sole ruffiano.
E oltre la siepe? Beh, c'è il giardino del giardiniere di Calvino, i sentieri dei nidi di ragno e la Meridiana.
A Carnevale si lanciano in aria fiches colorate. I leccaculo mascherati da Zorro hanno lingue più lunghe di quelle di Menelik.
Il lavoro nero è una abitudine e dire che qui il razzismo è di casa.
Il porto è pieno di yachts ma son tutti vuoti. Saranno le seconde, terze barche?
Qui tutti hanno i soldi, qui tutti stan bene,  sorridono, tutti, felici.
Che sia la città degli idioti?

lunedì 25 aprile 2011

Giorno di festa.

Il locale ha un’insegna che è un gioco di parole, oleoso ed enigmistico.
Dietro al banco del bar un ragazzo, che ha conosciuto la Spagna, maneggia con destrezza bottiglie, shaker, bicchieri. Con una rosa rossa in bocca sarebbe perfetto.
Due, alti, magri, tristi torturano canzoni. Sedie pesantissime ospitano culi pieni d’alcool, stomaci zeppi di tartine e focaccia. La sardenaira è buona, la torta verde così così.
Il professore beve una birra doppio malto italiana e sa che dovrà conservare, da queste parti, uno scoglio. L’amico di sempre condivide sia la birra che l’idea dello scoglio, anche se, da sempre, coltiva l’abitudine di guardare lontano. L’ex ragazzo perduto oggi ha fatto famiglia, una moglie, due figli. Beve per dimenticare, chissà cosa.
Il giorno è uno di quei giorni che si sanno di festa. Comandata.
L’allegria, di là da venire, strappa  l’aria e qualche sorriso. Qualcuno è già arrivato alla soglia di Bacco e continua a bussare. Nessuno risponde ed il citofono è spento.
Il padrone del vapore, un uomo già troppo grasso forte di stretta di mano, lascia fare. La nave pare che vada, questo, per lui, è quello che conta.
Anziani vestiti da giovani e giovani in panni da vecchi alzano calici di gratitudine.
Un turista ammira l’ardesia che adorna l’entrata, peccato che sia ferro. Per lui è uguale, gli piace il gelato ed il mare salato. Come tutti quelli che vengono e poi se ne vanno vorrebbe comprarsi una casa persa tra queste strette, ombrose stradine. Una casa difficile da trovare anche quando la hai. Sigarette bruciano lingue e polmoni, rigorosamente all’aperto come da decreto legge.
Si parla, si dice, si ascolta, si guarda la gente passare. Uno saluta ma non c’è nessuno. Va bene lo stesso qualcuno verrà. La musica smette, un po’ di riposo, tra poco il cantante del luogo si esibirà e chi lo conosce lo applaudirà.
La mia innamorata è bella stasera, più bella che mai. Balliamo, la bacio. Le labbra, le mani, i capelli.
Felici di essere, contenti di andare.
E’ giorno di festa, c’è chi lo sa. 

sabato 23 aprile 2011

XXV Aprile.

Libero oggi compie sessantasei anni e, nonostante il lifting, li dimostra tutti.
Quando nacque mai avrebbe pensato di vedere tanto.
Venne al mondo in quella mattina, proprio mentre l’intero Paese  splendeva di nuova luce. Suo padre, dopo aver baciato con passione colei che l’aveva partorito, lo prese in braccio e volle avvolgerlo in una bandiera tricolore. Poi lo portò al balcone per mostrarlo all’universo. Parecchi lo videro pisciare dalla finestra ed applaudirono festanti. La gente pareva impazzita, rideva, correva, ballava, cantava. Gli diedero quel nome, Libero, in segno di buon augurio per il futuro che, improvvisamente, a tutti pareva possibile. Il nuovo nasceva, il vecchio cattivo moriva. I tempi sarebbero cambiati, l’odio, la paura, l’orrore lasciavano il posto alla bellezza, alla gioia, all’amore. Lo straniero assassino era sconfitto, il rosso non avrebbe sporcato più nessun prato, il nero sarebbe mutato in bianco.
La sera il cielo era stellato, la primavera, dopo anni d’amaro, dolcissima.
Libero fu festeggiato per tutta la notte, all’alba del giorno dopo qualcuno ancora suonava una fisarmonica.
Tra le macerie degli uomini qualcuno gettò del cemento, della colla, del ferro e, in mezzo a quella rinascita collettiva, Libero, velocemente, cresceva. Ogni anno, per anni, il padre lo volle in prima fila alla manifestazione celebrativa per il giorno della libertà, munito della stessa bandiera nella quale era stato avvolto quando nacque. Lui la portava con orgoglio urlando a tutti il suo nome, Libero.
Poi, come in un assurdo caleidoscopio, successe un po’ di tutto.
Negli anni incontrò persone come Tambroni, Almirante, Andreotti, Leone, Fanfani, Longo, Moro e non gli piacquero molto. Amava di più uomini come Gramsci, Togliatti, Berlinguer, Pertini. Gli piacque moltissimo H.Herrera e il suo famosissimo ” Taca la bala!”. Anche Bartali, Coppi e Gimondi lo appassionarono non poco. Bandini lo vide morire a Montecarlo mentre correva su un bolide tutto rosso, i Beatles e i Rollig Stones gli cambiarono l’idea della musica. Portò pantaloni a zampa d’elefante e basette lunghissime. Salì sulle barricate durante il ’68, predicò l’amore libero, anche in nome del suo nome. Entrò in Mondo Operaio e Lotta Continua, disegnò qualche stella a cinque punte. Divenne un paladino della libertà ad ogni costo. Quando lo disse al padre questi, per la prima volta, gli rispose che non era d’accordo. Andò via di casa, nascondendosi un po’ ovunque. Rivide il rosso ritingere le strade e il nero ricoprire un’altra volta tutto. Negli anni che vennero mise a frutto la laurea in Economia, entrò vestito di grisaglia nella Milano da bere, divenne manager in una grande multinazionale, mollò gli operai al loro destino, si convertì al vecchio che avanzava. Sui biglietti da visita, dopo il Dott. decise di far scrivere Silvio, il suo secondo nome, ritenendolo più consono.
Improvvisamente suo padre morì e lui lo seppe solo dopo qualche mese.  
Una sera, andando a far visita alla madre, questa gli consegnò una busta rossa chiusa.
Sopra c’era, scritto a lettere grandi, il suo nome, Libero.
Aprendo la busta con un tagliacarte d’oro si accorse che conteneva solo un foglio, bianco.
Alla fine del nulla una firma, Giovanni.
Il nome di suo padre.   

venerdì 22 aprile 2011

Buona Pasqua!

Il gallo, all’alba, dopo avere inorridito col suo canto stonato l’intera vallata, era alle prime armi e ancora lontano dal dominare perfettamente pentagramma e corde vocali, tornò al pollaio per augurare una Buona Pasqua alle sue amate galline. Queste, svegliate di soprassalto dal lancinante lamento del loro maschione, mostrarono un certo disappunto. Una delle più vecchie disse al cantore pennuto di abbassare la cresta e togliersi dalle uova. Altre decisero di scioperare, non tanto per l’orario di lavoro comunque pesante, neppure per la paga, i vermi dell’aia non erano più quelli di una volta, ma, in particolare, contro quella stramaledetta abitudine di cantare a squarciagola, ogni mattina e così presto. La cosa peggiore fu il ritrovamento di due Padovane suicidate strappandosi le penne e bevendo un intruglio di escrementi di maiale e cicuta. Accanto all’ultimo uovo lasciarono un biglietto d’addio pieno di insulti, maledizioni ed anatemi rivolti proprio a lui.
Il gallo, consapevole della sua disgraziata natura ma ligio al dovere, non poteva fare a meno di cantare. Era scritto nelle regole, nella tradizione contadina. Da sempre era così. Il gallo canta all’alba, nero su bianco come da contratto con l’allevatore. Se si fosse deciso a smettere sicuramente gli avrebbero tagliato i barbigli e quant’altro. D’altronde gli incassi del suo show mattutino andavano male. Al botteghino non c’era mai la fila, anzi risultava quasi sempre deserto. Preso dalla disperazione intonò una nenia fuori orario cercando di ammansire la rivolta. Poi passò ad una ninna nanna che colse nel segno. Sul pollaio cadde il silenzio, l’harem dormiva tranquillo. Lui si rinfrancò. Si disse che allora non era poi così stonato se era riuscito, con quel melodioso canto, ad addormentarle tutte quelle stupide galline. Vedendo che tutto dormiva decise di farsi una pennichella. Cadde tra le braccia di Morfeo rapidamente, profondamente. Sognò di essere un novello Pavarotti, solo un poco meno grasso. Nel sogno raccoglieva grandi applausi ed ovazioni infinite.
Poi, quando si risvegliò tutto contento, il pollaio non c’era più. Lui era rinchiuso, completamente spennato ed oliato, sdraiato in una teglia, in un luogo stretto, buio e piuttosto caldo. Qualcuno accese una luce e lui riuscì a vedere, al di là del vetro, l'odiato tacchino che rideva. Poi la luce si spense e lui si sentì soffocare, leggermente bruciare, direi quasi abbrustolire. Quando lo portarono fuori, adagiato su un tappeto di patate annerite, e lo misero nel centro di una grande tavola, le galline del suo pollaio erano tutte appollaiate intorno, munite di coltello e forchetta e con un tovagliolo appeso al collo. Ci fu un grande, ultimo applauso, poi la più vecchia di tutte alzò un affilata mannaia e la piantò, con forza inaudita, in una delle sue cosce strappandogliela di netto. La pennuta tavolata emise all’unisono un urlo di soddisfazione e fece per dare inizio alla grande beccata. 
Il fattore, che seguiva in disparte la cerimonia, diede l’alt ed ordinò di augurare al gallo, prima di cominciare, una Buona Pasqua.
La gallina vecchia disse “ E’ giusto.” e, avvicinandosi alla testa del gallo, in nome di tutte, porgendogli l’uovo, con voce suadente, gli fece gli auguri.   

giovedì 21 aprile 2011

Liberi di andare.


 Angela aveva difficoltà persino a riconoscere se stessa allo specchio. Però ballava il flamenco meglio di qualsiasi altra. Aveva, come si dice, il ritmo nel sangue. Il giorno che, con una lametta, si tagliò le vene dei polsi, da queste fluì un fiume di note così bene assortite da dare vita alla melodia più bella, struggente, malinconica mai composta.
Paolo regalò l’anima al diavolo senza neppure chiedergli un documento d’identità. In cambio volle riavere, per cinque minuti, la sua vecchia Vespa 150 sprint di colore blu. Gli venne concesso. Belzebù gliela fece trovare, la mattina dopo, perfettamente in ordine e parcheggiata sotto casa. Quando, appena sveglio, aprì le persiane e la vide si mise a tremare. L’emozione fu così forte che non la resse. Morì con le chiavi in mano, cadendo per le scale, mentre correva saltandone i gradini per la smania di metterla in moto, tornare ragazzo e farci un bel giro.
Giorgia slacciò il reggiseno e prese il suo seno tra le mani. Lo tastò con attenzione, con le dita ne sfiorò i capezzoli che si inturgidirono all’istante. Si vide bellissima, senza un difetto. Prese le forbici da un cassetto e cominciò a tagliarsi i capelli, poi un rasoio per raderli a zero. Quando ebbe finito posò il rasoio, ritornò alle forbici e si mozzò la lingua. Il sangue schizzò sullo specchio, lei nemmeno si mosse. Semplicemente non aveva più voglia di parlare.
Dario partì per il suo quotidiano giro di consegna della posta. Quel giorno impiegò meno tempo del solito. Le buche delle lettere avevano fame. Lui le accontentò rapidamente. Quando finì e le vide belle piene, volle essere gentile offrendo loro un digestivo. Le buche ringraziarono ma rifiutarono con decisione. Lui si ritenne offeso e andò via senza pagare il conto.
Maria Maddalena cercava disperata nel parco il suo Cristo. Fermò molti uomini ma nessuno di questi aveva l’aspetto di Dio. Stanca, sconsolata, delusa, si sedette su di una panchina vicino ad un vecchio con un solo occhio, in mezzo alla fronte, a forma di triangolo. Lei non se ne accorse, lui non disse niente. Non si riconobbero mai.
Silvano scrisse la sua ultima nota sul noto social network. Il programma, nello stesso istante, venne chiuso. Nessuno seppe mai cosa scrisse. Nemmeno lui che da sempre non sapeva ciò che scriveva.
Antonio si strappò dall’avambraccio un variopinto tatuaggio. Poi prese un barattolo di colla e lo incollò sopra ad un muro. Il brandello di pelle raffigurante un drago fiammeggiante rimase lì, a futura memoria, per cento anni. Quando il secolo finì qualcuno decise di staccarlo ed esporlo in un museo. In molti pagarono un biglietto per poterlo vedere. La pelle degli altri, allora come oggi, è sempre andata di moda.
Marco scambiò la moglie per un cappello. Lei ci rise sopra fino a quando lui decise di non indossarla più e la sigillò in una cappelliera.
Alla fine chiusero i manicomi. Tutti furono liberi di andare ma nessuno sapeva dove.
Il mondo era già così pieno di matti che per loro non ci fu mai posto.

martedì 19 aprile 2011

Il senso delle cose.

L’intellettuale scapigliato smise le Clarks ed optò per un parrucchino stile Riccioli d’oro. Poi scese in strada, passò all’edicola all’angolo, comprò una copia di Vogue e la infilò nella tasca destra della giacca di velluto a coste marron. Quando, a piedi nudi, fece il suo ingresso trionfale nel solito bar, per la funzione serale dell’aperitivo, nessuno notò le differenze. Solo il cieco lo vide e gli chiese di prestargli gli occhiali.
Il marinaio, appoggiato al banco, con un misuratore per la pressione arteriosa allacciato al braccio di rosa tatuato, si accorse di avere la massima esageratamente alta. Per prima cosa si lamentò con il barista dell’eccesso di sale nelle tartine, poi raccontò una barzelletta sconcia, infine decise di curarsi ordinando una bottiglia di Jack Daniels.
L’elettricista disse ad alta voce che avrebbe lasciato per sempre il suo mestiere piantandosi contemporaneamente un cacciavite a stella nella coscia destra. Lo zampillio osceno del sangue macchiò il soffitto, appena ridipinto d’azzurro, fornendo al critico d’arte sdraiato su di un tavolo l’occasione, da tempo attesa, di parlare a lungo del periodo Pop.
L’americano, un soggetto da sempre a stelle e strisce, si intromise urlando in inglese. Il suo intervento, lungo, approfondito ed infarcito di un numero imprecisato di You know, durò circa dieci secondi. Nessuno lo capì ma tutti dissero Yes.
La signora col cagnolino improvvisamente se ne trovò sprovvista e si disse che, in fondo, portarlo sempre sulla testa era piuttosto scomodo. A nulla servirono le indicazioni del cieco, i gesti del muto, l’origliare del sordo.
Il barista colto da crampi alla gamba sinistra cominciò a saltellare su quella destra. Tutti sapevano della sua smodata passione per il ballo ed applaudirono convinti.
Il tifoso del Milan comparve vestito da Inter a cavallo di una zebra trascinando un somaro.  Comunicò a tutti di essere il nuovo padrone dei diritti televisivi sul calcio. Scattò, frenetica, la campagna abbonamenti. Tutti ebbero la carta prepagata Scai?, acronimo di Senza Calcio Avvamperesti Mai?, e ne furono contenti.
Un anziano cliente, colto da improvviso malore, cadde a terra stecchito stringendo con tutte le sue ultime forze un Martini Demy Sec. Qualcuno gettò a terra un’oliva.
Il venditore di macchine agricole giunse a bordo di una falciatrice ultimo modello e volle darne dimostrazione falciando le piante che graziosamente abbruttivano il piccolo dehor. Un vigile gli chiese se era in possesso di regolare permesso del Comune, lui rispose di avere, da sempre, la Wild Card.
Il nonno del bar si tolse la dentiera e la immerse, per puro divertimento, nel bicchiere colmo di spuma del cieco. Questi non se ne accorse perché guardava da un’altra parte e anche se avesse guardato nella direzione giusta nulla sarebbe cambiato.
Ad un certo punto il muto, dandogli di gomito, disse qualcosa al sordo ma questi fece orecchie da mercante. Il mercante, seduto poco più in là, si ritenne offeso. I riferimenti all’elefantiaca dimensione e forma dei suoi padiglioni auricolari lo irritavano da sempre, fin dai tempi delle scuole elementari dove era noto come Dumbo.
Infine arrivò, alla solita ora, il geometra. Posteggiò la sua auto quadrata sul marciapiede schiacciando un’intera famiglia di millepiedi che, ordinatamente, stava rincasando dopo una giornata trascorsa in spiaggia, gettò un rapidograph nel vicino cassonetto dell’immondizia, spalancò con un calcio la porta a vetri del bar stringendo tra i denti una Marlboro, sfoderò un enorme righello e, lanciando per aria coriandoli di carta millimetrata, compì una strage.
Per tutti fu la fine ed è alla fine che il senso delle cose si deve cercare.

domenica 17 aprile 2011

Il piatto del giorno: Sanremo: rubano bottiglie di grappa in via Palazzo ma vengono fermati in via Feraldi

Sanremo: rubano bottiglie di grappa in via Palazzo ma vengono fermati in via Feraldi

Riporto notizia da sanremo news accompagnandola con un sorriso. Oggi, Domenica delle Palme, qualcuno ha optato per la vite. Non trovandone nei paraggi del centro della nostra incredibile città, ha voluto ripiegare verso qualcosa che ne derivasse: l'acquavite. I tre baldi esploratori di scaffali quasi abbandonati, si sa che dalle nostre parti il commercio, ad esclusione di quello mafioso, è piuttosto in crisi, sono stati subito presi da un valoroso rappresentante della polizia di quartiere che non ha avuto difficoltà nel seguirne le tracce. I furfantelli hanno percorso quei pochi metri impiegandoci un paio d'ore a causa del loro andare decisamente tortuoso. In preda ai fumi dell'alcool si sono detti sorpresi al momento dell'arresto, ritenendo di non avere commesso il fatto nonostante avessero addosso una ventina di bottiglie di grappa di buona marca e una damigiana di vino al metanolo. Hanno dichiarato che, non avendo ne palme ne tranci di vite, avevano preso bottiglie e damigiana, in particolare quest'ultima, semplicemente per recarsi in una chiesa e farle benedire. A chi gli faceva notare che sarebbe bastato anche dell' ulivo, uno di loro ha risposto che la pianta gli piace parecchio ma è troppo pesante da trasportare. Accompagnati in questura, una volta giunti, hanno deciso di offrire da bere a tutti. Gli agenti hanno cortesemente rifiutato causa mancanza di colomba. La città plaude. Da queste parti basta poco.
Che dire: Oggi è la Domenica delle Palme..facciamo un brindisi?

venerdì 15 aprile 2011

Ballata per un eroe.

Ebbi la sensazione, approdando con quella nave, partita dall’Europa carica di pacifisti motivati, che quella terra mi sarebbe appartenuta. Io, come gli altri, ero partito per non fare la guerra. Mi piaceva quel pensiero. Lo avevo mutuato dalla Ballata dell’eroe di Faber, una canzone che amavo cantare quando strimpellavo la mia chitarra in compagnia degli amici o da solo volando tra i miei sogni. La sera prima di mettermi in viaggio, quel pensiero, lo comunicai ai miei per rassicurarli. Anche agli amici fratelli di sempre lo dissi, aggiungendoci una frase di Don Milani “ A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca.”, per motivarli. A chi chiedeva perché partissi, rispondevo per la voglia, la volontà di conoscere, raccontare la verità. No, non ero pagato.
Andavo a mie spese, a fare del giornalismo puro, senza interesse di sorta. Uno, al bar, mi disse che ero matto, che era pericoloso, forse inutile. Non mi convinse. Gli indifferenti non mi hanno mai convinto. Come a Gramsci, anche a me non sono mai piaciuti. La mattina dopo, intorno alle sette, due compagni d’avventura mi vennero a prendere con la loro macchina sotto casa. Mia madre si alzò per farmi il caffè ma in realtà voleva solo abbracciarmi. Lo fece e ne fui contento. Scesi le scale di corsa portando sulle spalle un piccolo zaino contenente quello che mi serviva: il PC portatile, la macchina fotografica, qualche indumento. I due che mi aspettavano in auto avevano la faccia assonnata ma convinta. Partimmo in direzione della città nel cui porto attendeva la nave che ci avrebbe portato a destinazione. Quando arrivammo sulla banchina stringemmo molte mani di gente entusiasta, colorata, sorridente. Tutti insieme salimmo e la nave salpò. La navigazione filò tranquilla su di un mare magnifico. Nemmeno mi accorsi del tempo che ci volle, non saprei quantificarlo in ore. Volò leggero, spinto dal vento della giustizia, della voglia di esserci, degli ideali.
Poi vedemmo la meta avvicinarsi. Da lontano pareva un posto come un altro, la terra vista dal mare è quasi tutta uguale, rassicurante. Entrammo in porto cantando, ballando, inneggiando alla libertà. Ci aspettava la polizia ma rimase lì a guardarci senza intervenire, ci lasciò fare. Esponemmo striscioni di protesta, urlammo i nostri slogan. La gente semplice che affollava il molo ci applaudì. Parecchi di noi scesero per affratellarsi con quel popolo martoriato da sempre, io fui dei loro. Appena misi piede su quel mondo capii che avevo fatto la scelta giusta, la cosa più bella che potevo fare. Decisi di fermarmi quando gli altri tornarono indietro. Per conoscere, per aiutare, per vivere. Divenni amico di molti, nemico di nessuno. Parlai molto cercando di capire, scrissi parecchio cercando di spiegare, fotografai tanto per documentare. Ogni sera, prima di dormire, ripetevo il mio pensiero e lo trovavo stupendo.
Ora sono qui, col volto tumefatto, le mani legate dietro alla schiena, bendato ed ho paura.
Prigioniero di gente che dice d’appartenere a quella stessa gente che volevo aiutare. Non ci credo, non riesco a crederci. Non possono essere le stesse persone, forse somiglianti ma di certo non appartenenti a quel popolo di cui ho sostenuto gli ideali e da cui sono stato accolto in fratellanza.
No, non sono loro, sicuro.
Tra poco mi filmeranno, me l’hanno detto. Poi il filmato farà il giro delle televisioni di tutto il mondo con una richiesta di scambio, la mia vita per la libertà di qualcun altro. Poi mi rilasceranno, così hanno promesso. Spero solo che a casa, quando mi vedranno sullo schermo, siano tutti vicini per sentire meno spavento.
Non devono temere per la mia vita, non devono avere paura.
Chi mi ha preso e mi tiene in ostaggio sa perché sono qui, conosce il mio pensiero.
Io sono partito per non fare la guerra.
Dio, come vorrei avere tra le mani la mia chitarra e suonare, ora, La ballata dell’eroe.
Quella canzone, così profonda, malinconica.
Chissà se qualcuno di loro avrà mai ascoltato Fabrizio De Andrè. 

giovedì 14 aprile 2011

Orchi e Dee.

Le nuvole bianche filano veloci sopra la sua testa.
La vecchia signora, con movimenti lenti, coltiva orchi e dee in un giardino incantato.
Vi dedica tutto il suo tempo. Da sempre, da quando riesce a ricordare.
Era bambina quando cominciò ad inseguire le stagioni.
Ha visto passare inverni freddissimi, primavere stupende, estati roventi, autunni pacifici.
Non si è fermata mai. Nessuna stanchezza, niente ripensamenti.
Ama i suoi orchi, le sue dee.
E’ l’unica al mondo a sapere tutto della specie. E’ stata lei a crearla, ad inventarla. E non per caso.
Sua madre, per il suo sesto compleanno, le fece trovare una piccola serra in giardino.
Dentro c’erano una decina di piante di vario tipo.
Tra queste spiccava una bellissima orchidea bianca e nera, lei ne fu subito affascinata.
Le altre non la interessarono neppure per gioco. 
Le lasciò morire senza pietà.
Solo quella orchidea stava nei suoi pensieri.
La curò con così tanta passione che in breve tempo divenne di una bellezza insopportabile.
Decise perciò di scinderla. Era troppo, anche per lei.
Ci vollero due primavere consumate in mille caparbi tentativi ma, alla fine della seconda, ci riuscì. Produsse due talee che parevano identiche ma lei sapeva bene che il DNA di ognuna era completamente diverso dall’altro.
Le mise entrambe, in un primo momento, in un vaso di terracotta piccolo e rettangolare.
Lo fece per farle crescere un poco insieme, così che non si accorgessero troppo presto di essere state divise. La vicinanza, secondo lei, avrebbe dato loro modo di sentirsi ancora un’unità.
Poi, in una bella mattina fresca di rugiada, le divise, interrandole una di fronte all’altra, ad una distanza di cinquanta metri, in quello che, da quel giorno, divenne il giardino incantato.
Da allora sono passati tanti anni, gli orchi e le dee si sono moltiplicati cercando di strapparsi la terra, combattendo feroci battaglie, rubandosi l’acqua, i fertilizzanti, il sole.
Lei ha visto tutto, ha perdonato tutto. Sono le sue creature, ne è madre e sa bene che una madre mai potrà ripudiare i suoi figli.
Li amerà sempre ed incondizionatamente i suoi orchi, le sue dee.
Ancora oggi, ormai vecchia, con mani nodose ed occhi quasi bui, ogni mattina, al levar del sole, viene al giardino incantato. Non può più lavorarne le zolle, si accontenta di aprire gli irrigatori a pioggia e, seduta su di una pietra ai margini dell’incanto, osserva, sorridendo, l’acqua dolcemente cadere sul campo.
Per un poco tutto si quieta, i suoi figli stanno bevendo.
Poi la lotta riprende, più cruenta e cattiva di prima.
Lei rimane lì, impotente, a guardare inebetita.
Piangere non serve.
Ormai è troppo tardi.

martedì 12 aprile 2011

Tarli.

Il cane, dopo avergli portato il giornale, fece miao e se ne andò scodinzolando. Lui non diede importanza alla cosa, distese il quotidiano e cominciò a sfogliarne le pagine in cerca di qualcosa di interessante da leggere. Non trovò nulla, ma si accorse che tutto era sottosopra. I pezzi scritti al contrario, la politica al posto dello sport, l’economia alla cronaca, gli annunci mortuari ai programmi TV, la prima pagina bianca, l’ultima a forma di mosca. “ Strano - pensò – lasciamo perdere, beviamoci un caffè.” Alzandosi, come d’abitudine, dalla parte sinistra del letto, anche nelle piccole cose voleva sempre dimostrare di essere un progressista, infilò le pantofole con la testa di Snoopy e si portò, sbadigliando ostentatamente, in cucina. La moka da uno lo aspettava sul fornello. Era, ormai da anni, sua abitudine prepararla la sera, prima di andare a dormire. Non aveva mai capito bene il motivo che lo spingeva a farlo. A volte riteneva che fosse un rito propiziatorio al sonno, altre per pigrizia mattutina. Nessuna di queste ipotesi lo convinceva ma l’abitudine, come si conviene, aveva preso il sopravvento.
Ruotò la manopola del gas e spinse il tasto d’accensione elettrico. La fiamma si accese sotto al culo della moka e prese a riscaldarlo. Dopo poco l’aroma del caffè giunse alle narici. Dalla credenza, ormai quasi devastata dai tarli più aggressivi che avesse mai conosciuto in vita sua, tanto da soprannominarli branco di teste di cazzo, prelevò un piattino bianco e la tazzina decorata con foglie d’oro. Gli piaceva pensare che fosse appartenuta a Giuseppe Garibaldi, anche se sapeva benissimo che era l’ultima rimasta, orfana di un servizio da dodici, donatagli da una vecchia zia, un Natale di parecchi anni prima, accompagnata da un biglietto, scritto in bella grafia, che recitava:
Caro nipote, ecco il mio regalo. Una gran bella tazza, finemente decorata, con piattino.
Dirai: Perché una sola?
Tu di due che ne faresti mai, brutto come sei?.
Ti bacio e scusami se preferisco farlo da lontano.
Buon Natale.
Zia Clotilde.
Era simpatica, ma un poco stronza, la Clotilde.
Quando morì, un paio di anni dopo in un bel giorno di primavera, volle lasciargli in eredità la credenza, che ora si disfaceva in cucina, infestata dai tarli.
Lui la accettò con piacere, anche se il rumore che proveniva dall’interno lo inquietava non poco. La portò in casa con l’intenzione di trattarla e ripulirla. Non lo fece. Poco a poco si abituò al frenetico lavorio di quelle bestiole affamate di legno e non seppe più farne a meno.
Gli tenevano compagnia, più del cane che, da sempre scontento della sua natura, sognava di diventare gatto.
Versò il caffè fumante nella tazza, la mise sul piattino che aspettava in mezzo alla tavola. Poi andò alla finestra, la spalancò, tornò indietro, bevve il caffè e, quando ne ebbe finito l’ultima goccia, lanciò la tazza nel vuoto. Drizzò le orecchie per riuscire ad udirne lo schianto al suolo. Poi prese il piattino e lo frantumò sotto ai piedi calzati Snoopy. Nel farlo il suo sguardo si posò sulla credenza. I tarli lo notarono e smisero di rosicchiare.
Calò un silenzio irreale, nuovo, insolito per quell’ambiente.
Tutto rimase sospeso per qualche secondo che, ai tarli, parve un’eternità.
Quando lo videro avvicinarsi armato di una grossa scatola di fiammiferi e di una bottiglia di alcool, alcuni di loro tentarono di fare le valigie, altri di parlamentare, altri ancora implorarono pietà mostrando i loro piccoli.
Non ci fu nulla da fare.
In un attimo la vecchia credenza, la loro amata residenza ed unica ragione di vita, fu avvolta dalle fiamme e ridotta in cenere.
La notizia ebbe enorme risalto sui maggiori quotidiani e network del mondo dei tarli.
Venne giudicata la più grande catastrofe mai avvenuta a memoria di buco.
Da allora le politiche di approvvigionamento delle materie prime furono cambiate.
Il Gran Consiglio Mondiale dei Tarli decise di accantonare le vecchie fonti d’energia e sostentamento a favore di altre meno rischiose.
Quella disgrazia insegnò molto alla comunità internazionale e, da allora, i tarli vissero felici e contenti.
L’uomo no.
Continuò a distruggere tutto.
E il cane?
Si fece operare a Casablanca nella clinica di un rinomato veterinario transessuale e ne uscì gatto. Finalmente.
Oggi vive tranquillo leccandosi i baffi, ronfando pigramente al sole.
L’unica anomalia postoperatoria viene dal fatto che quando rincorre i topi quasi sempre abbaia.
D’altronde ampi ed approfonditi studi dimostrano che l’evoluzione di ogni razza non passa certo per il bisturi.
Il noto filosofo naturalista tossicomane statunitense C.Giardiniere nella sua famosa autobiografia, facendo autocritica, lo dice chiaramente: Se farsi è male, rifarsi è stupido.

sabato 9 aprile 2011

Le avventure di Superbadante. 3° episodio: La rapina.

24 Dicembre, la Vigilia. Tra poco è Natale. Domani tutti saranno più buoni ed io, naturalmente, mi sentirò Superbuono. Perlustro le vie del centro. Nelle vetrine dei negozi, sfavillanti di luci ed addobbi natalizi, c’è di tutto. La gente si muove quasi ballando, frenetica, festosa. Mamme con bambini vocianti attaccati alle gonne sbavanti doni, coppie di innamorati abbracciati persi nel tintinnare dei campanellini appesi al collo di renne di cartone, Santa Klaus, con barba bianca e completo di lana rosso d’ordinanza., appostati all’ingresso dei Centri Commerciali. Uomini sposati in frettolosa transumanza in cerca di biancheria intima in pizzo da regalare alle amanti e di pentole a pressione per le mogli, le quali, a loro volta, scandagliano negozi sportivi scegliendo capi firmati per aitanti stallieri e, sui banchi del mercato, maglioni sformati per i consorti. Avvocati in cerca di regali particolari adatti a  segretarie particolari e  segretarie pantere su vertiginosi tacchi a spillo stranamente attirate da pennelli da barba in setola di cinghiale. E vecchietti. I miei cari vecchietti. Tanti e disperati. Stanchi dal lungo periglioso vagabondare, caracollano, inciampano, cadono nel vano tentativo di accaparrarsi, nella furibonda mischia natalizia, qualche piccolo, innocente oggetto che, come ogni anno, verrà schifato dai terribili nipoti, vere piaghe di ogni vecchino che si rispetti. Mi guardo intorno e lo cerco. Eccolo! Sarà lui, quel malfermo novantenne appeso al suo bastone davanti alla vetrina della più rinomata gioielleria della città, il beneficiario della mia prossima SuperBuonaAzione. Infilo i miei Superguanti rossi in lattice e tutto il resto del Supercompleto da Superbadante e mi porto in un Superattimo al suo fianco. Proprio mentre sto per accarezzargli la testina spelacchiata per farmi riconoscere, il simpatico vecchietto alza il bastone, che mi accorgo essere d’acciao e non di legno intarsiato come erroneamente avevo prima valutato, la distanza era considerevole e, a volte, anche i Super Eroi possono sbagliare in cose di poco conto, e lo scaglia con inaudita violenza contro la vetrina mandandola in frantumi. Con un balzo felino si lancia all’interno e, con la velocità degna di un centometrista medaglia d’oro alle Olimpiadi, arraffa tutto quanto gli è possibile. Resto impietrito davanti a tanta vitalità proveniente da un mucchietto d’ossa ormai consunte da osteoporosi in stato avanzato. Nel fuggire, lo scoppiettante matusalemme, mi nota, si ferma per un attimo e scoppia in una terribile risata. Riprendendo la fuga, si volta e mi saluta alzando il dito medio della mano destra adornato da una decina di anelli con pietre preziose. Poi si sentono delle grida provenienti dall’interno del negozio: “Al ladro! Al ladro! Fermatelo!! “. Arrivano auto della Polizia a sirene spiegate, sgommando sulle note di Die Stille Nacht. Uno degli agenti, catapultandosi fuori dall’abitacolo utilizzando la nota tecnica della tripla piroetta carpiata all’indietro, mi si para davanti puntandomi un mitra. “ Fermo! Bastardo! Ladro! Vergognati.! Domani è Natale e tu rubi? Sei in arresto! Alza le mani! Ma che cazzo di guanti indossi! Ma come cazzo ti sei vestito? Ehi, ragazzi..venite a vedere un po’ sto idiota! Ma che razza di ladro è codesto buffone.” Nel mentre accorre una trafelata commessa strafiga e spiega che il ladro non sono io ma un diabolico vecchietto di oltre novant’anni appena fuggito lungo il Corso con un carico di preziosi. L’Agente scoppia in un’ irrefrenabile risata saltellando come un epilettico avanti ed indietro a stento trattenuto dai commilitoni. “ AhAhAhAhAhAhAh.. Un vecchietto arzillo carico di gioieli che corre come Mennea dei tempi d’oro…AhAhAhAhAhAh..Non ci posso credere..a Natale.. e questo deficiente vestito da idiota che dice di essere il SuperBadante….AhAhAhAhAh..guardate che domani è Natale non Carnevale!! AhAhAhAhAhAh..non riesco più a smettere..mi sento male! AhAhAhAhAhAhAhAh…” Dopo un a buona mezz’ora giunse una autoambulanza che lo portò via. Mentre si allontanava  si continuava ad udire distintamente la folle risata provenire dall’autolettiga lanciata a tutta velocità verso il reparto d’igiene mentale dell’Ospedale più vicino. Del canuto ladro, della refurtiva, non si seppe più nulla. Dopo qualche giorno ricevetti a casa una busta rossa con dentro un biglietto bianco scritto, in bella, anche se tremolante, calligrafia: “Ciao SuperBadante! Mi hai fatto proprio ridere la vigilia di Natale davanti a quella vetrina del centro! Mi sono informato, ho saputo che tu sei il Super Eroe che si occupa di noi vecchi. Voglio ringraziarti a nome di tutta la categoria, proprio oggi che è il 6 Gennaio, il giorno della Befana. Ti auguro un Buon Anno, coglione! E attaccati al mio nodoso antico bastone e succhialo!”
Conservo ancora con piacere quelle parole di affetto e stima per il mio operato.
E’ bello essere Super Eroi quando la gente ti ama.

                                                                                                               …continua…

giovedì 7 aprile 2011

Lo spacciatore.

Quando una decina di agenti della squadra speciale anticrimine della polizia di stato lo fermò mentre svolgeva la sua quotidiana attività di spaccio nei vicoli della città vecchia, lui non fece alcuna resistenza. Sapeva di avere le ore contate. Gli stavano addosso da molto tempo. Lo intercettavano da mesi. Lui cambiava ogni giorno le schede dei tre telefonini che possedeva ma loro non avevano mollato mai. Seguivano i suoi spostamenti pedinandolo con perseveranza. Usavano i tracciati telefonici per avere conferme dei loro sospetti. Ogni cella della zona era monitorata continuamente. E alla fine ce l’avevano fatta. Beccato. In flagrante per giunta.  Con la roba in tasca, ed era roba buona.
“ Ok - disse sorridendo alzando le mani – Finalmente mi avete preso. Ottimo lavoro, ragazzi.”
Prima di consegnargli i polsi chiese un caffè. Nella piazzetta lì vicino c’era un bar. Lo accompagnarono. Il commissario  entrò con lui ed ordinò due espressi. Il barista si precipitò alla macchina e li preparò. Lui chiese se era possibile averlo macchiato con della panna liquida. Il barista disse di si piegando leggermente il capo in avanti e quando mise le due tazzine sulla barra bisbigliò piano un mi dispiace. Lui sorrise ringraziandolo. 
Il poliziotto fece finta di niente, pagò e disse che era giunta l’ora di andare.
Quando uscirono dal bar nella piccola antica piazzetta si era radunata una discreta folla.
 Lui alzò le braccia mostrando le manette. La gente prima si commosse poi partì in lungo applauso. I battiti delle mani rimbalzarono su ogni pietra come palline in un flipper impazzito, volando di eco in eco in ogni viuzza, angolo, androne del borgo. La notizia corse di bocca in bocca con una velocità capace solo a chi sa di vivere sempre sotto pressione, costretto a nascondersi, a fuggire, soffrire.
Il popolo degli offesi si mobilitò ed in massa accorse sul luogo del delitto.
Organizzarono un grande cerchio di braccia e, tenendosi per mano uno con l’altro, circondarono la città vecchia.
Tutte le vie di fuga vennero inibite, si poteva tranquillamente dire che neppure uno spillo sarebbe passato.
Il drappello di uomini armati scortava circospetto la sua preda, camminando piano, coprendosi le spalle, guardando in alto per il timore di essere sorpreso da eventuale fuoco nemico proveniente dalle terrazze stracariche di gerani dai mille colori.
Il cielo era meravigliosamente azzurro quella mattina. La temperatura ideale per sentirsi finalmente in vacanza.
Da ogni angolo, da ogni anfratto odoroso di muschio, visi di diverso colore osservavano.
Appena l’ultimo degli agenti era passato, sbucavano in strada mettendosi ordinatamente in fila.
Quando giunsero alla porta d’ingresso principale del centro storico la trovarono sbarrata da un’infinità di persone silenziose.
Il commissario capo capì che la partita era persa e, per evitare un inutile spargimento di sangue, ordinò ad un agente di togliere i ferri al criminale e di lasciarlo andare.
Lui, quando le manette gli liberarono i polsi, sorrise felice, soddisfatto.
Ringraziò la folla che lo aveva salvato e questa gli urlò la sua gioia.
Un bambino senegalese portato sulle spalle dal padre gli volle consegnare una lettera. Scritta in un perfetto italiano, senza errori di grammatica, diceva semplicemente che lui e gli altri bambini del posto gli erano grati per la sua attività. Una donna cinese gli regalò una rosa rossa. Un anziano il suo sigaro.
Lui, raggiante, prese tutto e, dopo avere abbracciato un po’ di gente, si infilò nel dedalo di vicoli profumati di basilico.
Prima di scomparire e rientrare in clandestinità rivolse un’ultimo sguardo di sfida al commissario capo.
Questi con gli occhi gli comunicò che non finiva qui.
Lui rispose, con tutta la luce di cui disponeva nelle pupille infuocate: capisco.
La sera stessa, il pericolo numero uno della città, lo spacciatore di pagine, era di nuovo in giro a servire i clienti.

mercoledì 6 aprile 2011

Il piatto del giorno: Traffico pericoloso.

Sanremo: prostituta investita al bivio per Bussana, sembra che fosse in mezzo alla strada.
L'articolo è su Sanremo news, ma:
Il titolo non mi convince. Siamo sicuri che fosse in mezzo alla strada e non in mezzo ad una strada?
Ed il vecchietto investitore dove andava e, sopratutto, portava il pannolino?
E l'impavido sceriffo Zoc dov'era?
E tutti i curiosi che ci facevano lì, perchè curiosavano?
Siamo certi che fosse una vera prostituta e non, per caso, una qualche parente del Mubarak di turno?
Chissà Ghedini come commenterebbe.
Considerando il probabile aumento, oltre che della benzina, del costo dei preservativi e della tassa comunale sull'occupazione del suolo pubblico, forse è comprensibile che una brava imprenditrice di se stessa si dia da fare per dare una spinta all'attività.
In fondo quasi tutti noi, giornalmente, attraversiamo una strada, molto spesso su delle zebre pur non vivendo in una savana, ed  i vecchietti rifatti e patentati, che incontriamo sul nostro cammino,  fanno paura.
Direte, ok, ma non è la stessa cosa.
Mi trovate concorde, anche se, dovete ammetterlo, al buio, di notte, qualcosa di scuro che vi viene incontro, in certi casi, può essere divertente.
Ogni sera, appeso alle liane di una foresta, chiaramente non più vergine, qualcuno cerca una via di fuga.
Si potrebbe mutuare la famosa frase di Costanzo ai tempi di Bontà Loro: " Cosa c'è dietro l'angolo?" con " Che c'è dietro la curva?". A voi la risposta.
Naturalmente stando bene attenti, da queste parti, a tenere, sempre, la destra.

lunedì 4 aprile 2011

Il tostapane.

Ci sono due ubriachi, quattro puttane, una maga indiana che si fida solo di Perlana. I pesci nella vasca. C’è Fosca, c’è Tosca, su quella tenda c’è una mosca.
E poi un cielo con due lune, un gatto, un matto. Un cappellaio strano, strafatto. Ha il tempo tra le mani, parla col vento e tutto quello che dice è un tormento: “Lo vedi come il mondo sta cambiando, tu sogni e intanto lui sta girando. La radio ha in onda il mare, il mare è in un cassetto, mi rado e non mi pare che tutto sia perfetto.”
Che fosse una strana giornata Mario lo intuì subito.
Intorno a lui solo cartoni animati. La casa sottosopra, l’auto in garage che rideva. Sul tavolo in cucina il fidato tostapane, compagno di mille colazioni, quella mattina aveva le mani e un paio di folti, curati baffi. Giocava con il pan carrè tostandone fette in continuazione. Poi le espelleva tutte bruciate, fumanti, gridando “Pool!”. A questo punto il frigo spalancava la porta e, armato di un fucile ad alta precisione, sparava all’impazzata cercando di abbatterle. Ad ogni fetta tostata centrata gli altri elettrodomestici applaudivano eccitati.
Il forno proponeva scommesse, la lavastoviglie faceva l’offesa.
Il tempo non era dei migliori quella mattina.
La doppia luna che si vedeva nel cielo era perlomeno strana considerando che il sole si era levato già da un pezzo. Appunto, si era levato, tolto di mezzo. Il suo posto risultava occupato da una donna piuttosto in carne, dotata di un seno enorme e con un giradischi al posto della bocca. Il mare, che fino al giorno prima stava dove sempre era stato, ora era nel cassetto della biancheria intima di Lucia, sua moglie, e sembrava soddisfatto. Il cane aveva preso le sembianze del gatto. Il gatto quelle di nonna Maria. Quest’ultima si aggirava nel salotto vestita come una pin-up aspirando il fumo di una sigaretta da un lungo, nero bocchino. Un tipo con uno strano cappello a forma d’orologio parlava da solo seduto su una arancia. Una maga indiana tracannava dell’ammorbidente.
Mario decise di non farci caso. Di non svegliare Lucia per informarla delle novità. Andò in bagno per radersi e vi trovò quattro puttane immerse nella vasca. Davanti al water due ubriachi che non riuscivano a centrarne il buco. La cosa lo infastidì un poco, ma, per buona creanza, non disse nulla. Prese il pennello, lo intinse nel sapone e cominciò a farsi la barba. Quando ebbe finito una delle puttane gli disse:” Stai bene rasato. Vuoi forse farti un bagno?”.
Mario ci pensò un attimo, poi si accorse che dentro, coperti dalla schiuma, c’erano già i due ubriachi e declinò gentilmente l’invito. Uscendo notò sul viso delle donne una certa delusione, su quello degli alcolizzati un invito a non provarci.
Scrollando le spalle, Mario, aprì la porta d’ingresso ed uscì in giardino. Si diresse rapidamente verso la casetta degli attrezzi, vi entrò. Qui, dallo scaffale di sinistra, prelevò un lanciafiamme e, dopo essersi cosparso accuratamente di benzina, si diede fuoco. Bruciò in un lampo.
Quando sua moglie si alzò dal letto e scese in cucina per farsi un caffè, il tostapane era sul tavolo, come sempre, in attesa di qualcuno che inserisse la spina.
  

venerdì 1 aprile 2011

Porca puttana!

Questa mattina ancora mezzo addormentato trascinando le ciabatte sei andato in bagno e, nello specchio, ti sei visto bellissimo.
Poi ti sei vestito e, dopo essere passato al bar per il solito caffè, che per una volta non sapeva di bratta, all’edicola di fronte hai comperato un quotidiano.
In prima pagina nessuna cattiva notizia, solo buone.
Leggermente sorpreso passi in terza, salti a quella di economia, poi alla cronaca, alla politica nazionale ed estera.
Niente.
Nemmeno una guerricola, una piccola pestilenza, un minimo terremoto, una minuscola esplosione nucleare.
Nessuna rivolta, niente morti ammazzati, neanche un kamikaze nano che si sia fatto saltare in mezzo alla folla.
Il governo che da troppo tempo ti affligge ha dato le dimissioni chiedendoti scusa per averti fatto tanto patire. Nessuno dei parlamentari dell’attuale legislatura più si ricandiderà a future elezioni.
Pippo Baudo ha deciso di ritirarsi dal mondo dello spettacolo.
La moglie di un tuo amico saxofonista ha venduto la tromba.
Tuo zio ti ha regalato una Ferrari, tuo cugino una maglietta della Fiorentina appartenuta ad Antognoni.
Passi al bancomat sperando di non essere in rosso e, dopo aver digitato il codice, ti accorgi di possedere un milione di euro. Il direttore della tua filiale ti viene incontro per farti i suoi complimenti.
Vai al lavoro e appena entri in ufficio ti dicono che non sei più precario.
Alla mensa il cibo è fantastico.
La sera, sull’autobus che ti riporta a casa riesci a trovare un posto libero.
Il portiere ti saluta gentilmente invece che col solito grugnito.
Tua moglie ti ha preparato una cena straordinaria senza bruciare, come al solito, l’arrosto. Sulla tavola, al posto del Tavernello, una bottiglia di Pommery d’annata.
Sei stanco ma felice. Finalmente.
Quando stai per buttarti sul divano con il telecomando in mano, suonano alla porta.
Vai ad aprire.
Davanti a te un fattorino con un telegramma in mano.
Te lo consegna sorridendo.
Lo prendi, lo apri, c’è scritto: Pesce d’Aprile!