giovedì 14 aprile 2011

Orchi e Dee.

Le nuvole bianche filano veloci sopra la sua testa.
La vecchia signora, con movimenti lenti, coltiva orchi e dee in un giardino incantato.
Vi dedica tutto il suo tempo. Da sempre, da quando riesce a ricordare.
Era bambina quando cominciò ad inseguire le stagioni.
Ha visto passare inverni freddissimi, primavere stupende, estati roventi, autunni pacifici.
Non si è fermata mai. Nessuna stanchezza, niente ripensamenti.
Ama i suoi orchi, le sue dee.
E’ l’unica al mondo a sapere tutto della specie. E’ stata lei a crearla, ad inventarla. E non per caso.
Sua madre, per il suo sesto compleanno, le fece trovare una piccola serra in giardino.
Dentro c’erano una decina di piante di vario tipo.
Tra queste spiccava una bellissima orchidea bianca e nera, lei ne fu subito affascinata.
Le altre non la interessarono neppure per gioco. 
Le lasciò morire senza pietà.
Solo quella orchidea stava nei suoi pensieri.
La curò con così tanta passione che in breve tempo divenne di una bellezza insopportabile.
Decise perciò di scinderla. Era troppo, anche per lei.
Ci vollero due primavere consumate in mille caparbi tentativi ma, alla fine della seconda, ci riuscì. Produsse due talee che parevano identiche ma lei sapeva bene che il DNA di ognuna era completamente diverso dall’altro.
Le mise entrambe, in un primo momento, in un vaso di terracotta piccolo e rettangolare.
Lo fece per farle crescere un poco insieme, così che non si accorgessero troppo presto di essere state divise. La vicinanza, secondo lei, avrebbe dato loro modo di sentirsi ancora un’unità.
Poi, in una bella mattina fresca di rugiada, le divise, interrandole una di fronte all’altra, ad una distanza di cinquanta metri, in quello che, da quel giorno, divenne il giardino incantato.
Da allora sono passati tanti anni, gli orchi e le dee si sono moltiplicati cercando di strapparsi la terra, combattendo feroci battaglie, rubandosi l’acqua, i fertilizzanti, il sole.
Lei ha visto tutto, ha perdonato tutto. Sono le sue creature, ne è madre e sa bene che una madre mai potrà ripudiare i suoi figli.
Li amerà sempre ed incondizionatamente i suoi orchi, le sue dee.
Ancora oggi, ormai vecchia, con mani nodose ed occhi quasi bui, ogni mattina, al levar del sole, viene al giardino incantato. Non può più lavorarne le zolle, si accontenta di aprire gli irrigatori a pioggia e, seduta su di una pietra ai margini dell’incanto, osserva, sorridendo, l’acqua dolcemente cadere sul campo.
Per un poco tutto si quieta, i suoi figli stanno bevendo.
Poi la lotta riprende, più cruenta e cattiva di prima.
Lei rimane lì, impotente, a guardare inebetita.
Piangere non serve.
Ormai è troppo tardi.

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