lunedì 26 dicembre 2011

Avanzi.


La mattina dopo, al canto del gallo, Roberta si alzò.
Dopo essersi stropicciata gli occhi, infilata le ciabatte e scrollato dal pigiama un grumo di tagliatelle al pesto, si diresse in cucina.
Aprendone la porta con un calcio colpì violentemente il gatto che finì la sua vita spiaccicato sul frigo.
Prese il bricco del latte, ne bevve un sorso, lo ripose. Chiudendo l’anta si accorse del gatto e lo gettò dalla finestra.
Poi vide la tavola e le venne da vomitare.
Una pila enorme di piatti sporchi l’osservava ghignando. L’intero servizio di posate ereditato dalla nonna, unto e bisunto, ridacchiava. Una fila lunghissima di bicchieri macchiati di vino ammiccava. Per terra, in un angolo, tovaglia e tovaglioli, abbelliti da medaglioni multicolori, ruggiva. Sulla credenza, sulla stufa, sul piano di cottura, sulla lavastoviglie rotta da mesi, sulla lavatrice, pentole e piatti da portata colmi di avanzi infestati da nugoli di mosche.
Per prima cosa spalancò la finestra per favorire il cambio dell’aria e l’aria cambiò raggelandole le ossa. Fuori, la temperatura era sotto lo zero.
Affacciandosi vide, nel giardino condominiale, il vicino armato di martello e scalpello intento nell’opera di liberare il cane dal ghiaccio.
Lo salutò chiedendogli se avesse passato un buon Natale, questi le rispose con un rutto.
Lei disse “ Salute!”.
Lui “ Vaffanculo!”.
Richiuse la finestra e voltandosi si trovò circondata dagli avanzi. Minacciosi.
Facendo finta di niente cominciò a muoversi lentamente verso l’uscita ma questi si disposero a barriera davanti alla porta. Allora, lei, prese la ricorsa e, pensando a Fosbury, tentò di saltarli ma, proprio nel momento di staccare, mise il piede d’appoggio su una fetta d’arrosto perdendo l’equilibrio.
Cadde sull’insalata russa, tentando di aggrapparsi ad una fetta di panettone.
In un attimo gli altri avanzi le furono addosso e, dicono le cronache, che non ci fu nulla da fare. 

sabato 24 dicembre 2011

Lettera a Babbo Natale.


Caro Babbo,
comincio con il chiedere un favore:  quest’anno non calarti giù per il mio camino. Da un paio di mesi l’ho affittato ad una famiglia di precari, padre, madre e quattro figli, gente semplice che conduce una vita frugale, riservata e che non ama essere disturbata.
Ti prego quindi di voler entrare dalla cantina.
Lì, tra botti e damigiane, troverai il solito albero con palline e luci colorate sotto al quale potrai lasciare, senza problemi, le cose semplici che ti ho chiesto nella mia tradizionale letterina allegata, ovvero un miliardo di euro in biglietti di piccolo taglio, l’isola caraibica popolata, esclusivamente, da splendide fanciulle, diverse per razza e colore, poco vestite e di facili costumi e un pupazzo con le fattezze dell'ex  ministro Giarda, mi raccomando le orecchie, da tenere sul comodino per rallegrarmi, appena alzato, la giornata, più un po’ di latte, del caffè caldo, una spremuta d’arancia e due croissants ripieni di marmellata d’albicocca, così che io possa, mentre conto i soldi, fare colazione.
Ti prego, una volta tanto, di essere preciso e di farmi avere i regali che ti ho chiesto.
Non fare come al solito, non ti confondere come è successo negli ultimi anni che mi hai portato solo debiti da pagare, tasse, partiti politici di merda, governi assurdi, Premier, a dir poco, imbarazzanti.
Un’ultima cosa: da sempre ti aspetto ogni notte di Natale e da sempre ti vedo arrivare su quella dannata, scassata carretta trainata da una muta di renne stordite e spelacchiate, con indosso quel vecchio, rattoppato vestito e con quella lurida barba che di bianco non ha più nemmeno un pelo; non sarebbe ora di radersi un poco, cambiare stilista e mezzo di locomozione?
Per quest’ultimo ti consiglio un nuovo modello Fiat, lasciato in eredità da Marchionne, che, come da tradizione, per la nota casa automobilistica torinese, assomiglia poco ad auto ma parecchio ad una slitta.
Datti da fare Vecchio Nat, i tempi cambiano e Dio solo sa quanto ci vorrà per mettere a punto l’orologio.
Ora ti lascio Babbo Babbione, scusami ma suonano alla porta.
Deve essere la Befana.
Ho sentito, ieri, al telegiornale che il carbone, firmato Dolce e Gabbana, quest’anno, lo consegna in anticipo.

lunedì 19 dicembre 2011

Il giorno di Natale.


Il giorno di Natale per Mario, cassaintegrato, separato, con tre figli a carico ed un mutuo impossibile sulle spalle, sarà un giorno come tutti gli altri dell’anno appena trascorso: un giorno di merda.
Certo, grazie ai cinesi, riuscirà comunque a regalare qualcosa ai suoi figli, nipoti e parenti prossimi e, scandagliando le offerte nei Discount, avrà anche il tradizionale pranzo della vigilia di Natale anche se il panettone, una volta aperto, sprigionerà un leggero odore di muffa.
In un angolo della sua piccola casa, da tempo assediata dalle banche, metterà l’albero di plastica con le palline colorate. Le luci no, per risparmiare sulla bolletta già troppo cara.
Poi farà un giro veloce di telefonate per augurare, a chi ancora si ricorda di lui, le Buone Feste.
Sotto l’albero metterà l’unico pacchetto regalo che lui stesso si sarà fatto.
Sarà molto bello, di carta multicolore stampata con renne, abeti e Babbi Natale. Il fiocco, che lo sormonterà, d’oro ed enorme.
Lo aprirà nella notte di Natale, da solo perché i suoi figli passeranno la vigilia in compagnia della sua bellissima ex moglie che, da qualche tempo, si è rifatta una vita scegliendo, questa volta, un farmacista. Non per amore, ma per dare, una volta per tutte, un calcio definitivo alle difficoltà economiche.
Aprendolo, facendo finta di non sapere cosa contenga, si mostrerà felicemente sorpreso, contento. Poi, trascinandosi dietro il suo utilissimo regalo, cercherà una bella trave, la più solida tra quelle che reggono il tetto, e, a cavallo di questa, lo farà penzolare, non prima di averci fatto un bel cappio ed averlo ricoperto di filo argentato. Poi infilerà la testa, stringerà il nodo scorsoio abbellito da nastrini rossi, darà un calcio allo sgabello, precedentemente coperto di muschio avanzato dal presepe, e si lascerà cadere.
Morendo, forse proverà dolore, ma mai quanto ne abbia provato in vita.
Finalmente, alla fine di tutto, dondolerà leggero sognando la luce gialla di una stella cometa.
In lontananza, dalla finestra socchiusa sul mondo, l’insegna a caratteri cubitali, illuminati al neon, della fabbrica che gli ha rubato la vita.

mercoledì 7 dicembre 2011

Poker.


All’ultimo giro di poker, Monti il baro mischiò le carte e le distribuì.
Poi posò il mazzo sul tavolo davanti a se, si allentò il nodo della cravatta, alzò la testa e, con occhi di ghiaccio, trafisse le pupille degli altri giocatori.
Il primo, un pensionato stanco di vivere, disse cip.
Il secondo, una donna dimenticata, chiese carta.
Il terzo, un cassaintegrato disperato, disse passo.
Il quarto, un giovane disoccupato, rilanciò.
La posta era incredibilmente alta.
Il baro sorrise e, con voce ferma, sicura, dolcemente disse: "Sto."
Le carte scesero sul tappeto verde.
Il cassaintegrato era fuori, ormai, dal gioco.
Il pensionato stanco mostrò la sua coppia di fanti scaduti.
La donna dimenticata un tris di re detronizzati.
Il giovane disoccupato una scala con maturità scientifica, laurea in ingegneria biomeccanica, un paio di master ed un diploma di campione del mondo di biliardo a stecca, praticamente nulla.  
Il baro sorrise triste travolto da una leggera commozione e calò un poker d’assi.
Raccogliendo il cospicuo monte con una paletta d’oro disse:
“ Oggi avete perso, come sempre, ultimamente, vi capita. Non vi preoccupate. Un poco di sacrifici e, domani o forse dopodomani, disporrete nuovamente del denaro necessario per giocare un’altra partita.
Io sarò qui ad aspettarvi e, se Dio lo vorrà, avrete maggiore fortuna.”
Poi, Monti il baro, risistemandosi il nodo alla cravatta, si alzò e, dopo aver ringraziato e salutato gentilmente tutti, si sistemò su di una portantina d'epoca romana subito issata e sostenuta da Casini, Bersani, Fini e Pulcinella che partì veloce, direzione Montecitorio, scortata da innumerevoli entusiasti seguaci tra i quali, nascosto da alcune spogliarelliste dipinte di verde, qualcuno giurò di aver riconosciuto persino Berlusconi.
Lungo la strada, Monti il baro, gettò il vecchio mazzo truccato col quale aveva vinto innumerevoli partite. Ora non serviva più, le carte andavano cambiate.  

venerdì 4 novembre 2011

martedì 1 novembre 2011

lunedì 31 ottobre 2011

lunedì 24 ottobre 2011

mercoledì 12 ottobre 2011

DA QUELLA FINESTRA SI VEDE IL MARE.



Il nano alla guida di un SUV gigante alzando polvere sgommava sulla strada sterrata. Seduta al suo fianco la donna cannone, stordita dall'erba, indicava la via. Al primo incrocio, tra il deserto e la savana, un pesce pagliaccio faceva l'autostop. Il SUV si fermò, il pesce salì. “Ora il circo è completo, stasera si balla.” disse il nano al leone sdraiato sul sedile posteriore. “Ti sbagli, amico” rispose il felino” Tu ballerai stasera, io ho altro da fare. Guida, taci e non ci provare.”

Qualche km avanti Distolfo attendeva, con infinita pazienza, un treno che non sarebbe arrivato mai. La ferrovia, ancora in fase di progettazione, prevedeva una lunga galleria di cartone illuminata da luci colorate rubate dagli alberi addobbati per la notte di Natale. Purtroppo, in una notte sola, non si riusciva, da anni, a metterne insieme il quantitativo necessario così l'opera tardava a venire. Distolfo lo sapeva ma non gli importava, aspettare, in fondo, in quel tempo buio, era una buona occupazione.
Così, fermo e col pollice alzato, in assenza di treni, Distolfo sperava che una nuvola di polvere s'alzasse in lontananza. Lui, a differenza di altri che avevano coltivato l'usanza di mettere in mostra il dito medio precedentemente dipinto di verde, usava, da sempre, solo il pollice per farsi notare. Sapeva che anche il suo, in fondo, era gesto politico. Chiedere un passaggio, a chi correva nel frastuono del nulla, era come dire: " Ehi, amico, anch'io esisto! Sono qui e voglio andare da qualche altra parte. Dove non importa. Portami dove vuoi ma non in luoghi che non esistono come la padania o a feste con il bungabunga o in qualche cortile dove, alla catena, aspettano l'osso cani come E. Fede.”.
Ecco, Distolfo, sul ciglio di una strada qualunque, non chiedeva altro che un passaggio per un giusto mondo, sapendo benissimo che, ottenerlo, sarebbe stato praticamente impossibile.

Intanto il nano guidava attento distraendosi spesso mentre ruotava la testa di 360° gradi sul collo cercando di impressionare i compagni di viaggio. " Continua così brutto nano del cazzo ed andremo a sbattere da qualche parte!" ruggì il leone passandosi una striscia di rimmel sulle ciglia. " Ok sire" replicò il nano " Stavo solo giocando un poco. Che noia, però, che siete! Mai una risata, sempre cupi. Che dite, cantiamo una canzoncina?"
" No, non ne abbiamo voglia e poi siamo giù di voce qui dietro." disse il pesce pagliaccio.
" Lasciaci in pace nano! Abbiamo sonno e desideriamo sognare." chiosò sbadigliando il leone.
" Sognare è tempo perso a questo mondo. Come essere ubriachi ed addormentarsi su un monte di spazzatura. A prima vista può sembrare comodo ma poi la puzza ti uccide." concluse la donna cannone aspirando un’enorme boccata dal joint, sparandone con violenza il fumo nei polmoni per poi espellerlo, con tutta la forza di cui era capace, unitamente ad un grandioso, tonante rutto, fuori dal finestrino. Il cielo, prima limpido, divenne improvvisamente scuro ed alcune stelle traballarono vistosamente e caddero, fingendosi Draconidi, frantumate dai decibel.

Un paio di continenti più in là, Arcazio accudiva al suo unico paio di scarpe. Stendeva con cura il lucido, partendo dalla punta per poi spalmarlo dolcemente su tutta la tomaia, servendosi di un morbido piccolo pezzo di stoffa, con moto lento, costante, circolare. Finita la destra, che depositò delicatamente in una scatola di cartone bianco, passò alla sinistra. Nel farlo si fermò un attimo a pensare. Si disse che se, un anno prima, non avesse incontrato l'amore non avrebbe più saputo che farsene di quelle vecchie ma belle scarpe. Terminò il lavoro sorridendo, tra non molto le avrebbe di nuovo calzate quelle scarpe. Lo avrebbe fatto per uscire di nuovo, per immergersi, un’ultima volta, nelle luci e mille voci della notte.
Lo avrebbe fatto per tornare a ballare.
..segue..

venerdì 23 settembre 2011

martedì 20 settembre 2011

sabato 17 settembre 2011

martedì 13 settembre 2011

Una tazzina di caffè con: Il poeta dei fiori.

Prima di avviare il video mettere in pausa la playlist del blog.

sabato 10 settembre 2011

mercoledì 7 settembre 2011

lunedì 5 settembre 2011

domenica 4 settembre 2011

GRAFFI. Piccolo spazio pubblicità.

Prima di avviare il video mettere in pausa la musica del blog.

domenica 28 agosto 2011

10.000

Oggi festeggio le prime 10.000 visite su questo mio blog. Un piccolo ma significativo, per me, risultato.
Ringrazio tutti, lettori fissi, amici da network e anche coloro che mi seguono senza iscriversi.
Colgo l'occasione per ricordare, a chi fosse interessato, che è possibile acquistare il mio libro GRAFFI direttamente dal blog,  tramite Pay Pall, usufruendo dell'apposito carrello.
Detto questo, augurandovi una buona fine estate, alzo il calice e brindo con tutti voi, miei cari lettori.
A presto.


Norberto Minguzzi.

mercoledì 17 agosto 2011

Brunello.



Non va per il mondo portando promesse. Nella valigia ha solo formaggio e qualche salume.
La sera, tornando dalle Terre di Francia, una volta giunto a casa, gli piace immergere i piedi in un secchio pieno d’acqua tiepida infusa col rosmarino, un toccasana dopo una giornata passata a tentare di vendere, ai cugini d’Oltralpe, caprini italiani. Così, con i piedi a bagno e il Secolo XIX in mano, seduto su di una poltrona in vimini, sulla terrazza affacciata sul mare, si rilassa. A volte pensando ai bei tempi andati quando, qualcuno, riusciva a gustare fette di salame Milano scartandone il grasso. Ne ride di pancia, di petto, di bocca. Le voci di sfascio imminente del Paese, che riempiono le pagine del giornale, non gli fanno impressione. Ha vissuto troppe avventure per avere ancora paura. Ama il gioco, le giocate rischiose, conosce molti trucchi ma non bara. A volte, pur avendo la testa perennemente da altre parti, declama poesie. Le sue. Una tra tutte preferisce, quella composta per la moglie venuta dall’est. Guardandola negli occhi, cercando la sua anima, ad alta voce la recita. Poi sorride mentre lei si commuove. Al bar, il solito, gli amici ascoltano, approvano. Il barista, un ex ballerino votato da anni al cabaret, accenna un passo di danza. Applausi convinti del pubblico presente. Dalla radio accesa, nascosta tra le bottiglie, una musica languida scivola via. Si alzano i calici, si brinda.
La sera si arrampica sui muri. Ora è l’ora di andare. Ognuno accompagnerà se stesso, o qualcun altro, sulla via di casa.
Il mondo non si fermerà certo per questo, continuerà lentamente a girare.
Brunello finisce il bicchiere di vino. Rosso naturalmente, nomen homen.
Alzandosi, abbandonando la compagnia, già pensa al secchio che lo attende ed ai suoi piedi che lo bramano. “Ancora un poco di pazienza e, tra poco, sarete più freschi, profumati di rosmarino.” sussurra piano sorridendo tra se.
” Ciao Brunello!” salutano gli altri. Lui risponde alzando la mano.
Con l’altra avvolge sua moglie, abbracciato a lei s’incammina verso il mare.
E’ una gran bella, calda serata d’estate.
Il secchio può aspettare.

Il PIATTO DEL GIORNO: Il sonno degli ingiusti.


'This is possibly the most beautiful little City on the Italian Riviera. It is however IMPOSSIBLE to have a decent meal and enjoy sitting outside to enjoy the weather. We were accosted by more than 18 African immigrants trying to sell us watches, clothing, handbags. It made the meal so awful, so uncomfortable. The restaurant owners all seem obvious as to how unpleasant this is. To be fair to …. , the town is over run by these poor people, however it does totally spoil what could and should have been a great experience.
Visited July 2011
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Il turista a stelle e strisce, probabilmente un simpatico adepto del KKK, si lamenta. Impossibile cenare tranquillamente nella città di Sanremo all’aperto. Troppi venditori colorati lo disturbano, offrendogli articoli vari, tra un piatto e l’altro. La città insorge, compatta. Finalmente individuato il problema che impedisce uno sviluppo al turismo consono alla città dei fiori dimenticati. Fioccano articoli e proteste, lettore al Direttore, cartoline e pacchi postali. Una volta per tutte sappiamo ciò che ci affligge: i venditori ambulanti extracomunitari.
Non le amministrazioni incapaci, propense ad incentivare soltanto i loro affari, oppure la mafia che tiene in pugno la città, o il traffico caotico,o la ciclabile più lunga d’Europa e, una della più belle, quasi abbandonata, il Casino che continua a fare da fulcro senza mai portare benefici alla comunità, la maleducazione imperante tra la maggior parte degli addetti al commercio, l’incapacità di accogliere chiunque con un sorriso, il Centro Storico mai recuperato alla sua bellezza e, da sempre, abbandonato a se stesso e alla buona volontà, e disperazione, di pochissimi. No tutto questo non interessa. Quello che colpisce e si va a cercare con certosina, illuminante pervicacia, è la critica di un turista americano un poco, forse, razzista, che non sa, non conosce, non capisce.
Chi, invece, dovrebbe sapere, conoscere, capire continua a fingere di essere, anch’esso, uno di passaggio e, speriamo, che, prima o poi, le valige le faccia veramente.
La città dorme da troppi anni il sonno degli ingiusti; riuscirà mai a svegliarsi?

venerdì 5 agosto 2011

11 agosto 2011: GRAFFI a Taggia.




Graffi.Racconti minimi dalla poltrona.



In una bella sera d'estate, l'undici agosto prossimo, sarò, appoggiato da qualche parte a completa disposizione di chiunque vorrà sfogliarmi, all'interno del prestigioso Ristorante Cocktail Bar Olio Colto in Taggia, Via Curlo 6 ( IM ), tel.018442156, indirizzo web http://www.oliocolto.it/

Olio Colto

Sarò lì, tra antiche mura, con un drink, preparato con la consueta perizia da Danilo, infilato tra le pagine, ad aspettarvi.
Il mio autore, un personaggio privo di vergogna, vi allieterà, si fa per dire, strimpellando la sua dannata chitarra in compagnia di alcuni amici musicisti, praticamente chiunque venga accompagnato da uno strumento.
Ospiti d'onore della serata saranno:
L'esimio Poeta Prof. Marco De Carolis che provvederà, tra i fumi dell'alcool, ad una forbita, appassionata presentazione di me stesso.
Il sax imperituro, garbato e soprattutto intonato, cosa rara di questi tempi, del Prof. Livio Zanellato, accompagnato dalla gentile Signora Adriana Ligato munita di tromba.
Il Maestro dei cocktails, padrone di casa, Danilo, detto lo spagnolo, che da dietro il bancone, tra un bicchiere preparato e l'altro, si esibirà funambolicamente con le sue amate armoniche.
Accorrete numerosi ma poco poco, piano piano, come sempre.  

giovedì 28 luglio 2011

Fritto di paranza.

Essere stanchi del mondo non è difficile se la frittura di paranza ti va di traverso.
Il cielo sopra Berlino lo aveva visto almeno quattro volte ed, ogni volta, era coperto dalle nuvole.
Il muro, poi, lo costruì suo nonno, da solo. Era un abilissimo manovale calabrese con le mani quadre, dotato di grande fantasia e di nessuna capacità nel reggere l'alcool durante le partite a passatella. Quando, dopo aver prenotato un posto di classe su di un carro bestiame, partì per la Germania, giurò, su quanto aveva di più caro, pur non ricordando ne chi ne cosa, che mai e poi mai avrebbe bevuto birra. " Non voglio mangiare nemmeno un wurstel, menchemeno dei crauti!" urlò mentre il capostazione fischiava ed il treno partiva. Si addormentò tra un maiale ed una gallina e, la mattina, quando si svegliò, la dolce pennuta gli aveva cagato sulla testa. Assonnato e barcollante si diresse verso il bagno ed aprì la porta senza bussare. Seduto sul water il maiale leggeva le pagine finanziarie di un quotidiano cecoslovacco e quando si accorse di lui gli disse "Salsiccia!".
Chiedendo scusa pisciandosi addosso, dopo aver richiuso la porta, decise di fare un salto alla carrozza ristorante per una petit dejeuner.
Entrando disse "Bonjour!".
Il barista, un uomo biondo, alto, con gli occhi azzurri, certamente ariano, con uno strano accento pugliese rispose "Scheise!" e gli lanciò del fieno. Fu subito allergia. Gli starnuti risuonarono forte lungo tutto il convoglio, così forte da giungere alle orecchie del macchinista che, infastidito, tirò il freno, staccò il locomotore, scese ed andò a puttane. Non tornò più.
Interrogate, le generose signore, giurarono di non averlo mai visto. Una in particolare, dotata di folti baffi, muscoli vigorosi, voce cavernosa, con un cappello delle Ferrovie sulla testa e un disco di Guccini sotto ad una ascella, dichiarò che da quelle parti mai era passato un macchinista ferroviere. Le indagini si fermarono lì ed il caso venne chiuso.
Il treno ripartì con il pilota automatico, sbagliò il primo scambio di coppia e deragliò in un grande prato verde dove crescono speranze che si chiamano ragazzi.
Il manovale si salvò ed, a piedi, giunse in PostdamerPlatz. Qui conobbe una certa Milva, una pantera dai capelli rossi. Un colpo di fulmine. Convolarono a nozze poco dopo e lei gli chiese di costruirle una casa.
Lui si mise subito all'opera e in un tempo velocissimo eresse il primo muro. Quando ebbe finito si voltò per cercare gli occhi assatanati dell'amata ma questa non c'era più. Fuggita, tra un colpo di cazzuola e l'altro, con un bagnino di Cesenatico che si trovava da quelle parti per una vacanza. Il manovale, deluso e sconfitto, fece ritorno e si ritirò, per sempre, in Aspromonte dove aprì un albergo ad ore.
Oggi il muro non esiste più, l'albergo ad ore, invece, gode di ottima salute.

lunedì 25 luglio 2011

La cadrega.

Oggetti polverosi e vissuti lo guardavano stizziti.
Lui con una mano reggeva un ombrello, con l'altra sfiorava il Paradiso. La pioggia cadeva incessante, fitta, trafiggendogli gli occhi. Rideva osservando la polvere dissolversi. Il mondo gli appariva improvvisamente diverso, insolito, uguale. Non era più il tempo delle mele, lo capiva dai vermi che le divoravano. Uno fece capolino bucando la buccia gialla, leggermente avvizzita, di una di queste e gli chiese: " Scusa se disturbo. Non avresti qualche altro frutto? Che so, una nespola, una susina, una fragola o, sarebbe fantastico, delle giuggiole?"
Lui disse: " Aspetta un momento. Guardo nelle tasche. Dovrebbe esserci una vecchia banana. Ricordo di avercela messa una cinquantina di anni fa. Era un po' acerba e volevo farla maturare. Ora credo sia bella pronta, giusta da mangiare."
Il verme rimase lì ad aspettare ma la banana non arrivò mai.
Decise, allora, di partire per lidi esotici, spiagge lontane. Comprò un costume da Carnevale e volò a Rio.
Qui giunto, si accodò subito a sculettanti ballerine di Samba ma non possedeva il dono del ritmo.
Lo misero fuori squadra ma lui, pur ritenendosi offeso, non si perse d'animo. Volle dimostrare a tutti che sapeva suonare la Bossanova come nessun altro verme sotto terra.
Comprò una chitarra, un tanga, una cassa di birra e si trasferì in Svizzera dove divenne esperto nel contare i buchi dell'Emmenthal. Ebbe la fama ma non il formaggio, era un verme non un topo. Per questo motivo fu squalificato a vita. Accusato di doping, messo alla berlina, fuggì a bordo di una utilitaria. Lo fermarono alla frontiera sparandogli con un lanciarazzi.
L'auto saltò per aria ed atterrò a Varese. Uscendo strisciando dai rottami fumanti finì sotto ai piedi scalzi di un leghista mussulmano che gli mostrò una copia del Corano scritta in bergamasco.
La lesse con avidità pur non capendone nulla.
Poi, qualcuno, gli diede una cadrega e lui, finalmente soddisfatto, si ritirò per sempre.

martedì 19 luglio 2011

Niente Coca-Cola.

Nella sua vita aveva fatto cose straordinarie come riuscire a stappare una bottiglia di birra con i denti o camminare bendato in equilibrio su di una formica. Gli piaceva giocare sapendo di perdere sempre. Andava pazzo per le ombre cinesi. Passava ore davanti ad una lampada muovendo le mani, le dita, formando figure fantastiche su pareti bianche. L'aquila, il coniglio, il cane, l'indiano che muove l'occhio ed apre la bocca. 
Con quest'ultima, la sua preferita, poteva trascorrere una notte intera inventando storie incredibili.
Poi, in una notte di luna piena e moglie ubriaca, decise di smettere e diventare geometra.
Comprò un righello, una squadra, un compasso, della carta millimetrata, un temperino e fece la punta ad una matita. Appena ebbe finito, la mina affilata prese a correre veloce e, dribblando tutti, attraversò l'intero rettangolo di gioco e mise la palla pentagonale in fondo alla rete.
L'arbitro, un astrofisico cieco famoso per aver scoperto la Stella di Negroni, fischiò ed indicò il cerchio di centrocampo.
Il portiere di gomma, battuto, la prese male e cancellò la linea di fondo e l'area di rigore. Poi fece sparire l'erba, le panchine, le riserve, i massaggiatori e, con la palla, si diresse verso gli spogliatoi urlando " E' mia! E' mia!! Non gioco più, me ne vado." Da quel momento, per  tutti, divenne la Mina e lui, offeso, si fece esplodere sotto alla doccia trasformando lo stadio in un cratere enorme.
I venditori di bibite e panini persero il lavoro ma conservarono la fiducia, tre aranciate e alcune fette di salame. Con questo piccolo capitale aprirono, qualche tempo dopo, una fabbrica di cannoni e, bombardando chiunque non saldasse le fatture, divennero ricchissimi.
Il mondo, ormai, era ai loro piedi, sempre che, questi, avessero trovato qualcosa su cui appoggiarsi. Guardando con attenzione si accorsero di una zolla superstite e, scalzi, vi saltarono sopra.
" A piedi nudi nel parco!" disse uno destro " Avanti Piedi Neri!" incitò uno sinistro.
Quando pareva che fossero riusciti a sistemarsi, la zolla andò in mille pezzi disperdendosi nell'infinito brodo primordiale.
Alcuni alieni, intenti ad accendere un barbecue, videro la scena e si misero a ridere. 
" Telefono casa." disse il comandante. Purtroppo le linee erano intasate ed il cellulare non aveva campo.
" Va' beh. Telefono casa dopo." concluse masticando una braciola carbonizzata.
" Porco Saturno! Spark, cuoco di marte! Ma quando riuscirai a cuocere la carne al punto giusto? Lascia perdere. Vi porto tutti da McDonald's ma niente Coca-Cola!".

mercoledì 6 luglio 2011

La spina.


-        - E’ più facile staccarla, che tenerla attaccata, la spina. -
Questo pensava, stringendo forte le ginocchia con le mani, guardando il soffitto, seduto, sulla piccola poltrona rivestita di velluto blu, accanto al letto.
Quel letto, ormai, diventato la sua isola, il porto dove ogni mattina entrava per dare una furtiva, ansiosa occhiata e la sera attraccava per trascorrervi una notte priva di stelle, da quando suo padre, sette anni prima, si era improvvisamente ammalato di S.L.A.
Da sette anni.
Ormeggio per buoni e cattivi pensieri che si alternavano velocemente, tarlandogli la mente, consumandogli gli occhi. Era la sua speranza, la rabbia, la solitudine, l’impotenza, l’amore.
Il suo mondo. Immobile.
Da sette anni.
Sua madre faceva il turno di giorno occupandosi di tutto quello di cui aveva bisogno suo padre e suo padre aveva bisogno di tutto. Poi, la sera, arrivava lui e le dava il cambio. Lei, uscendo senza parlare, lo guardava triste ma orgogliosa. Era contenta di avere un figlio così, uno che non si era mai arreso all’infinito tempo trascorso accanto a quel letto, così come non lo aveva fatto lei. In silenzio, ogni sera, si passavano il testimone della sofferenza scambiandosi una carezza, un timido sorriso.
Lei usciva piano dalla stanza, chiudeva con delicatezza la porta, scivolava via.
Sul tavolino rotondo, a tre piedi e col piano di cristallo, qualcosa da mangiare, una caraffa piena d’acqua fresca, a volte una bottiglia di birra, della frutta e una rosa. Appena lei era svanita, lui si avvicinava al letto e guardava quel volto. A volte neppure lo riconosceva. Altre faceva finta di non riconoscerlo.
Il volto dormiva quasi sempre. Ogni tanto sereno, spesso sofferente.
- Dorme. - pensava – Chissà come fa? -
Se lo domandava spesso, chiedendosi, immediatamente dopo, se lui sarebbe riuscito, nella medesima situazione, a fare lo stesso. Dormire. O se solo sarebbe stato capace di resistere, in quella condizione, così a lungo. Oppure se, nel caso gli fosse capitato qualcosa del genere, un giorno, qualcuno, chissà chi, gli avrebbe osservato il viso.
Sette anni. Volati. Pare impossibile come il tempo corra veloce anche quando sembra fermo.
Miliardi di minuti consumati accanto a quel letto, cercando gli occhi di quel volto. Immaginando il mondo, fuori, ignaro di quel letto, intento a correre dietro al nulla, ad affannarsi per ogni piccola stupida cosa. A farsi del male.
Lì, vicino a quel letto, non c’era spazio a sufficienza per le cazzate, anche se qualcuna, ogni tanto, avrebbe fatto sicuramente compagnia.
Era solo. Lui e il volto. Lui e il letto.
Lo Stato non si era mai visto, non si era mai fatto sentire. Nemmeno una cartolina di auguri.
Lui, ad un certo punto, in preda alla disperazione, aveva annunciato, in un programma televisivo, la volontà di vendere un rene per poter continuare ad occuparsi del padre.
La cosa aveva fatto scalpore e, sull’onda mediatica dell’emozione, qualcuno, appartenente alle istituzioni, si era fatto vivo promettendogli aiuto. La promessa fu mantenuta ed oggi, lui e sua madre, possono, per qualche ora del giorno, staccarsi da quel letto.
Ma poi la sera ritorna e subito dopo la notte.
Con essa arrivano i buoni e cattivi pensieri.
Giusto così, non si può dimenticare, perdonare l’indifferenza, trascurare le altre persone che, come lui, passano notti senza stelle.
Per questo continua a lottare, non gli basta quello che ha avuto, troppo poco, troppo facile.
Lo fa anche per tutti gli altri che devono avere.
Lui, per farsi ascoltare, per non essere costretto a staccare la spina, ha dovuto urlare di voler vendersi un rene.
      Una provocazione o forse no.
      Lo hanno preso sul serio.
      Hanno fatto bene.

lunedì 4 luglio 2011

Nella città degli idioti.

Nella città degli idioti quando incontri qualcuno mai lo conosci.
Le persone non sono persone ma ectoplasmi catarifrangenti.
Nella città degli idioti, la gente riesce a riflettere senza aver bisogno di pensare.
Tutto gira intorno a dei tavoli verdi da gioco, la mafia tiene il banco e vince sempre.
Le amministrazioni si avvicendano frenetiche, passandosi la fiche del comando da mano sporca ad altra lurida. Qui nessuno ha la buona abitudine di usare, costantemente e con profitto, del sapone per lavarle. Vanno parecchio i deodoranti capaci di nascondere la puzza.
I commercianti, per nulla equi e solidali, litigano per una sedia, o uno sgabello in più, nella piazza simbolo del divertimento, il posto peggiore dove spendere il proprio tempo. Ladri da sempre, accolgono il turista, il pellegrino di passaggio, come fosse il classico pollo da spennare, senza un sorriso. Il saluto più in voga è il calcio nel culo, pratica perfettamente applicata. I fondamentali sono ben noti a tutti.
Nella città degli idioti persino i fiori non sono gentili. Nelle aiuole crescono agguerriti ed incazzati. Piante carnivore assassine. I giardinieri le temono a tal punto da non riuscire ad avvicinarle.
La città degli idioti è il luogo rappresentativo del peggio del Paese. Finta, scostante, ignorante. Disporrebbe di un bel centro storico ma nessuno, qui, da importanza alla Storia.
Utilizzato come una cloaca a cielo aperto, rifugio per sbandati, luogo di speculazioni assortite, fa generosa mostra di se sulla collina. Dall’alto o dal mare pare quasi bello. E’ bello, troppo per gente abituata a vivere di sole marchette. La piccola riottosa stupida borghesia, ammassata nei trecento metri della via dello struscio serale, non lo ama. Preferisce il Rolex. Questo si che sa cosa sia il tempo, al presente, al passato.
I pochi che certamente lo vivono, e lo pensano migliore, rappresentano una minoranza, quasi dei tossici della speranza.
Chi vive a dieci metri di distanza dalle antiche mura, ritenendosi appartenente ad altra galassia, lo ignora, ne ha paura.
“ Ci sono i negri, lassù!”. Questo si dice a chi chiede informazioni.
“ Meglio non andare, lassù.”. Si consiglia.
Lassù il male, quaggiù il bene. Confondono ed invertono l’ordine tra il Paradiso e l’Inferno. Naturalmente nulla sanno del Limbo dove, da sempre, si trovano.
La città degli idioti vive così, sospesa sulla sua stupidità. Inutilmente, stancamente protesa verso l’effimero. Banalmente affacciata sul mare.
Nuotando nello stesso mare, in un tempo ormai lontano, Italo Calvino ha trascorso la sua adolescenza.
Poi, appena ha potuto, se ne è andato.
Lui, da altri posti, ha immaginato e scritto “ Le città invisibili “.
Tutta un’altra storia.

giovedì 30 giugno 2011

Il Maestro del piffero.

Quella notte prima scrisse una polka poi, col pennarello nero, si tinse i capelli.
I fratelli, nella stanza accanto, giocavano agli indiani scalpandosi con dolcezza.
Il gatto gli chiese una birra e lui si alzò e, sbuffando, andò in cucina. Quando aprì il frigorifero uno squalo gli morse il naso. Perse parecchio sangue ma riuscì  ad agguantare una Beck's. Dalla tasca bucata del pantalone recuperò un cavatappi e lo gettò nel bidone dell'immondizia. Subito dopo ruppe il collo della bottiglia e, già che c'era, anche le prime due vertebre. Quando udì il gatto lamentarsi per la lentezza nel servizio, chiamò a raccolta, suonando un piffero, tutti i topi di fogna del quartiere. Uno solo si presentò e gli consegnò un foglio di giustificazione a nome di tutti gli altri: " Spiacenti Signore ma siamo impegnati a cotonarci il pelo. Appena finito saremo da Lei, sempre che riesca a suonare intonato. Distinti saluti.
I topi di fogna."
I fratelli, nella stanza accanto, giocavano alle mummie bendandosi con dolcezza.
Bussarono alla porta, prima piano poi piano.
Andò ad aprire, sull'uscio c'era un piano, con la coda di paglia, vestito di nero. Sorrideva con denti d'avorio e disse di chiamarsi Sam. Lo informò che qualcuno, poco prima, in un bar pieno di fumo e puttane scadute, aveva sparato al pianista, contravvenendo ad ogni regola di buona educazione, e lo implorò di fare due note.
Il gatto oramai urlava tutta la sua disperata sete graffiando nervosamente le poltrone in similpelle del salotto.
Nella stanza accanto, i fratelli giocavano alla caccia alle streghe linciandosi dolcemente.
Il piano piangeva struggenti note e lui ne ebbe compassione.
Decise così di sedersi e suonare ma mancava lo sgabello. Chiese al piano di pazientare un attimo e corse in salotto. Qui prese il gatto  per la coda e lo sbattè con violenza contro un busto in marmo di Bach. Poi, con la bestia tramortita avvolta al collo come una sciarpa, tornò indietro portando una sedia. Il pianoforte, appena lo vide, tornò di buonumore e mise a nudo i suoi tasti. 
Durò poco. Appena i primi accordi risuonarono nella notte buia, qualcuno, dalla finestra di fronte, gli sparò con un bazooka e fece centro.
La notizia del brutale assassinio del Maestro fece, velocemente, il giro di tutta la città. In pochi se ne stupirono.
I topi di fogna, ancora intenti a sistemarsi i bigodini, dissero che, loro, lo avevano avvertito.

sabato 18 giugno 2011

Bestiario n° 3.

Il solleone si levò all’alba e ruggì improvviso.
Il pesce rosso, disturbato dal rumore, lasciò la boccia di vetro e decise di andare al mare in autostop.
La gallina fece l’uovo cubico. Il fattore, con un pennarello nero in mano, ne pretese, per il giorno dopo, un altro uguale, per poter giocare, la sera, a dadi con la moglie. La gallina lo accontentò. Per fargli una sorpresa lo depose, di nascosto e nella notte, dentro al frigorifero. La mattina dopo la moglie del fattore lo trovò e lo sciolse nella minestra. Due ore più tardi l’uomo, deluso, decise di tirare il collo alla gallina. Poi la spennò e la mise sul tavolo della cucina. La moglie completò il brodo. Dopo cena si accontentarono di giocare a scopa.
Il cavallo da tiro, dopo essersi fatto una presa di tabacco, si dichiarò stanco ed acquistò, a rate, un divano a sei posti. Il commerciante di mobili, in luogo dello sconto, gli regalò una coperta di crine e un cuscino di fieno. Il cavallo ne fu contento. Chiese che il divano gli fosse consegnato, la sera stessa, presso la sua stalla, Via dei Carrettieri 23, piano terra. Quando due deboli facchini del negozio arrivarono trascinando il divano scivolando sugli escrementi, la televisione era già accesa, la birra fresca sul tavolo. Dopo averlo piazzato vicino alla stalla del maiale, il cavallo si sdraiò ed accese la TV. Si addormentò, in un attimo, guardando, senza interesse, un concorso ippico. Il maiale ne approfittò subito, prese il telecomando e selezionò un canale porno. Si titillò velocemente godendo, naturalmente, come un maiale.
La vacca, come sempre arrapata, udendo i grugniti di piacere del porco, si eccitò e cercò il giovane toro che risultò esser chiuso, come sempre, nel bagno, impegnato a darsi dello smalto rosa sugli zoccoli e, per l’ennesima volta, la centrale del latte andò in bianco.
Il gallo cantò fuori orario rompendo i timpani a tutti.
Gli animali della fattoria si riunirono in un’assemblea straordinaria per risolvere il problema.
Venne deciso, dopo breve discussione, di eliminarlo.
Della cosa furono incaricati due topi di fogna e un gatto siamese.
I tre sicari organizzarono un piano perfetto e lo misero in discesa vicino ad un burrone.
La vittima venne attirata usando come esca la meglio gallina del pollaio, spennata e profumata al punto giusto.
Il gallo si presentò all’appuntamento galante con un mazzo di rose e una manciata di vermi.
Furono baci e furono sorrisi poi furono soltanto fiordalisi.
Nella casa di campagna tornò il silenzio e la pace. Durò poco.
La sera stessa la volpe e la faina aprirono una discoteca.
Per l’inaugurazione, a far da colonna sonora, venne invitato il gruppo dei Giganti.
Questi risultarono troppo alti e non riuscirono ad entrare.
La serata venne annullata e gli ospiti, ormai pronti per far festa, rimasero delusi, tranne le oche che non riuscivano a smettere di ridere.
Venne la notte e sul bestiario, stremato da una giornata a dir poco bestiale, calò l’oscurità.
La civetta, dopo un paio di moine, accese i fari, mise in moto e volò via.

venerdì 17 giugno 2011

La Cinquecento L.

La Cinquecento L bianca, con il tettuccio di tela nera aperto, era parcheggiata sotto casa, pronta a partire. Il sedile posteriore pieno di roba e, sopra, l'immancabile mazzo di garofani rossi che, al tempo, chiunque lasciasse la Riviera per altri lidi portava con se. Dopo un quarto d'ora di raccomandazioni e saluti della nonna, che gli imponeva il solito mazzetto di prezzemolo sulla pancia come rimedio, probabilmente di sua invenzione, contro il mal d'auto, sua madre si mise al posto di guida e lo chiamò: " Nino! Dai! Muoviti!".
Corse ed aprì la portiera, montò in auto sistemandosi sul sedile accanto. Lei alzò la leva del motorino d'avviamento e la piccola utilitaria, dopo un paio di sobbalzi, andò in moto. Nino sentiva le vibrazioni del motore sotto al sedere ed una grande emozione percorrergli tutto il corpo. Aveva otto anni e quello era il suo primo lungo viaggio in auto verso una destinazione sconosciuta. Più di cinquecento chilometri, una distanza che, allora, gli parve infinita.
Il posto dove erano diretti si trovava in Provincia di Grosseto, nella zona di Orbetello, in fondo alla Toscana. La sera prima, dopo aver visto Carosello, prima di addormentarsi, aveva consultato l'Atlante Geografico De Agostini annotando su un foglio a quadretti tutti i nomi delle località della zona. Sul retro disegnò una cartina stradale segnandovi le città più importanti, che avrebbero incontrato lungo la strada, evidenziandole con un cerchietto a penna rossa. C'erano Imperia, Alassio, Savona, Genova, capoluogo della Regione, Portofino, che qualcuno gli aveva descritto come un posto stupendo, La Spezia. Qui finiva la Liguria e si entrava nella Toscana, ed ecco Massa Carrara, nota per le cave da cui si estraggono marmi di gran pregio, Viareggio, Forte dei Marmi, Castiglione della Pescaia e, ancora, giù fino in Maremma, terra di cowboy nostrani, bufale e gustose mozzarelle, l'Argentario, promontorio selvaggio bagnato dal mare e, infine, la loro meta, Ansedonia.
Appena partiti la tirò fuori dalla tasca dei pantaloni e la distese sul cruscotto.
Sua madre la vide e gli domandò cosa fosse quel foglio con tutti quei segni e quelle scritte.
Glielo spiegò e lei rise forte, staccò la mano destra dal volante ed accarezzandogli la testa disse: " Una cartina stradale?Allora non ti fidi di me!" e rise di nuovo.
Sull’eco, sull’onda di quella risata il tempo è volato.
Sono accadute talmente tante cose che pare non sia successo mai niente.
Nino, da allora, non ha più disegnato carte stradali. Si è fidato solo delle stelle anche quando il cielo risultava coperto dalle nuvole ed il buio era assoluto. Ha perso così spesso la via che, comunque, una cartina non lo avrebbe aiutato. E poi, se ancora è qua, lo deve al cuore, non alla vista.
Ora, lei, non ride quasi più.
La sera, seduta accanto ad una finestra, guarda una piccola piazza deserta.
Cerca con gli occhi, con l’ansia dei vecchi, qualcosa, qualcuno che sappia raccontarle, bene, la fine della storia.
Da sotto Nino la osserva, triste la guarda guardare.
Lei alza una mano, saluta.
Lui sorride. Risponde al saluto.
Poi si avvicina alla macchina, apre la portiera, sale. Mette in moto.
Guida piano immaginandosi vecchio.
Si vede, a sua volta seduto, su di una sedia accanto ad una finestra ad aspettare, in silenzio, qualcuno che sappia raccontargli, bene, la fine della storia.
Spera solo che, quando verrà quel momento, dalla sua finestra, si veda il mare.