giovedì 28 aprile 2011

L'isola dei sogni.

Quel giorno, come d’abitudine, Malik si alzò prestissimo. Non era ancora spuntato il sole che lui stava già sotto la doccia. Mentre l’acqua rimbalzava sulla pelle risvegliandogli il corpo pensava a quanto era stato fortunato. Ormai erano passati sette anni da quando, dopo una traversata tremenda, era sbarcato sull’isola dei suoi sogni. Certo, in un primo momento, gli era venuto il ragionevole dubbio di avere sbagliato. L’accoglienza non era stata delle migliori, anche se alcuni isolani gli avevano subito sorriso. Ad attenderlo c’era la polizia italiana ed altri uomini in divisa con le mani vestite di lattice bianco. Questo particolare gli diede fastidio. Non era malato, non portava epidemie ma, alla fine, pensò che non fosse il caso di fare il difficile. Quello che contava era essere arrivato in quel luogo, in quel Paese dove avrebbe, sicuramente, ricominciato a vivere, con fatica, certo, ma, finalmente, senza la paura di morire.
Una volta fuori dalla doccia e dai pensieri andò in cucina a farsi il caffè, un rito mattutino che lo faceva sentire parte integrante di quella terra che sì, alla fine, gli aveva dato una possibilità ma non un permesso di soggiorno definitivo, ne diritto di cittadinanza, rifiutandosi, per pigrizia, per paura, di riconoscerlo come figlio suo.
Tra poco sarebbe uscito di casa, dopo avere baciato la moglie che ancora dormiva, per recarsi al lavoro. Da tre anni era dipendente, non in regola si capisce, di una ditta di costruzioni. La paga non era il massimo ma bastava a permettergli una vita dignitosa. Ogni mattina, al cantiere, i compagni lo prendevano in giro per il colore della pelle. Lo facevano scherzando, non erano cattivi. Ci aveva fatto il callo aggiungendolo a quelli delle mani che erano forti, volitive. Con quelle mani stava creando, poco alla volta, il suo futuro, sperando, un giorno, di poterle usare non più per impastare cemento, posare mattoni, sollevare pesi ma per disegnare progetti di edifici, ponti, strade. Era laureato in Ingegneria ma qui quel suo titolo non era ancora riconosciuto, non valeva niente. Così, per il momento, si era adattato in attesa che qualcosa cambiasse.
La giornata di lavoro cominciò pesante come al solito. Prima dovette scaricare un camion di sacchi da cinquanta chili di cemento, poi passò all’impastatrice dove lavorò duro per un paio d’ore, infine gli dissero di salire sull’impalcatura, al piano più alto, per staccare, dalla carrucola che le issava, carriole piene di malta e consegnarle, una ad una, ai muratori che lassù erano all’opera. Lui, da bambino, aveva timore delle altezze, soffriva di vertigine. Qui aveva imparato a stare in equilibrio, come un trapezista sulla corda, ed il vuoto più non lo spaventava.
Venne l’ora di pausa per il pranzo, Malik sedette con gli altri su di una trave sospesa nel cielo.
Che bello che è il mondo visto da quassù, pensò.
Poi fece colazione. Karima, sua moglie, la sera prima gli aveva infilato nello zainetto una bella frittata di patate e cipolle, del pane, un pezzo di formaggio, un paio di mele, una bottiglia d’acqua ed un piccolo termos pieno di caffè. Gustò il tutto come fossero le migliori pietanze, preparate da un famoso chef, servite in un grande ristorante. Pensò a lei e si disse che, prima o poi, l’avrebbe portata in un posto del genere, con i tavoli coperti da fresche tovaglie di lino, posate per ogni piatto, calici di fine cristallo, una rosa rossa a centrotavola. Karima lo meritava, per i sacrifici che sopportava, per quanto lo amava.
Durante la pausa il capomastro gli prestò il giornale. Lui ne sfogliò rapidamente le pagine, il tempo non era molto, fermandosi in quelle di cronaca. L’articolo che lo attirò parlava dell’imminente concerto del Primo Maggio di Piazza San Giovanni a Roma. Sotto al titolo un lungo elenco di città dove si sarebbero svolte manifestazioni simili per festeggiare la Festa dei Lavoratori. Di spalla un fondo di un noto editorialista parlava della sicurezza sul lavoro. Di lato un riquadro con delle statistiche sugli infortuni, sulle morti bianche, sui caduti del lavoro. Il numero, sebbene in leggero, costante calo rispetto agli anni precedenti, ancora impressionante: nell’anno in corso 980 persone, uomini e donne, avevano perso la vita mentre cercavano di portare a casa un pezzo di pane.
Un brivido gli corse lungo tutta la schiena, poi la sirena suonò.
Alzandosi, per riprendere il lavoro, ripiegò ordinatamente il giornale e lo restituì, ringraziando, a chi lo aveva prestato.
Poi alzò gli occhi al cielo per rivolgere una preghiera al suo Dio.
Si perse in quell’azzurro popolato da soffici, bianchissime, leggere nuvole.
Un attimo dopo le vide allontanarsi troppo velocemente.
I suoi occhi continuavano a fissarle ma loro apparivano sempre più distanti, disperatamente lontane.
Rapidamente, come in un film impazzito, rivide angoli della sua Terra, ne riconobbe gli odori, i colori. Il viso severo del padre, il sorriso della madre, i giochi di bambino con i fratelli. Lo sguardo dolce di Karima, quello pieno di gioia dei suoi due figli.
Poi vide l’isola dei suoi sogni farsi sempre più vicina. 

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