lunedì 8 novembre 2010

La locomotiva.

La stanza ha pareti bianche un poco scrostate e luci al neon che illuminano bene tutto il suo squallore. Due sedie malconcie, un tavolo troppo basso con sopra riviste dalle pagine ingiallite, una panca. Seduto su quest’ultima c’è, in mezzo ad altri due, il mio culo. Il primo appartiene ad un signore barbuto, alto, grosso, sui settanta. Parla con la erre moscia ed un forte accento emiliano. Dice di essere stato un cantastorie, anche di successo, ma ora è una locomotiva. Il secondo si agita continuamente, si dichiara insegnante di lettere, storia, filosofia, latino, greco. Sbraita di essere stato ingiustamente sospeso dall’insegnamento da un preside fascista di un liceo classico in Samarcanda. Io ascolto, le mani sulle ginocchia, lo sguardo fisso sul muro dal quale penzola, appesa ad un chiodo malfermo, una riproduzione di un famoso dipinto di Chagall e credo di essere matto.Sull’altra parete c’è un orologio grande, di plastica color rosso con il quadrante bianco e le lancette nere. Segna le nove e quindici. Sono le nove e quindici di una mattina già troppo calda. Oggi è il dieci agosto. Indosso un paio di pantaloni di cotone bianco ed una maglietta blu. Ai piedi un paio di zoccoli tipoinfermiere. Il mio orologio da polso, un vecchio Zenith, con carica manuale, placcato oro, regalo di uno zio nel giorno della prima comunione, fa la stessa ora dell’orologio appeso al muro. Quindi, a meno che entrambi non mentano, sono effettivamente le nove e quindici di un fottuto, afoso, mattino d’agosto.
“Sai che essere una locomotiva, in fondo, non è poi male per un uomo. Ti da un senso di onnipotenza e poi si viaggia. Si va, si torna, belli, precisi. Su bei binari lucenti, scintillanti. Insomma una gran bella, sana, vita!” – Il professore filosofeggiava e l’emiliano locomotore sbuffava. Poi commise un errore, si addentrò in un eloquio sulla modernità, su quanto fascinoso fosse rullare su binari sospinti dalla forza motrice generata dalla corrente ad alta tensione, sulle nuove frontiere dell’alta velocità e via discorrendo. Si udì una voce cavernosa, leggermente alterata, che riempì il vuoto della stanza. “ Io sono una locomotiva alimentata a carbone…Stronzo!” Sullo stronzo, due mani grandi come badili, a forma di tenaglia, si strinsero al collo del piccolo professore di Samarcanda. Ci vollero quattro energumeni vestiti di bianco per liberarlo da quel simpatico abbraccio.

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